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In un’epoca in cui si tende ad introdurre nuovi reati e a innalzare la pena di quelli già esistenti, parlare di diritti dei detenuti può apparire come rivoluzionario. E può apparire ancor più rivoluzionario se il diritto in questione è quello alla sessualità.
Sebbene la prima reazione di molti sia che il nostro sistema penitenziario «ha ben altri problemi di cui discutere», di questo si discuterà tra meno di un mese davanti alla Corte Costituzionale – ed è probabile che si arrivi ad una decisione entro la fine dell’anno – dopo che il magistrato di sorveglianza di Spoleto ha sollevato questione di legittimità costituzionale delle norme dell’ordinamento penitenziario nella parte in cui non prevedono che alla persona detenuta sia consentito, quando non ostino ragioni di sicurezza, di svolgere colloqui intimi, anche a carattere sessuale, con la persona convivente non detenuta.
A dire il vero, non è la prima volta che la Corte è chiamata a pronunciarsi sul tema. Nel 2012, nel dichiarare inammissibile una questione analoga, la Consulta, dopo aver aveva riconosciuto che si tratta di un’esigenza reale e fortemente avvertita, aveva sottolineato la necessità di prestavi attenzione alla luce della risposta parziale fornita dell’ordinamento.
Nonostante gli anni trascorsi, quell’attenzione da parte del legislatore invocata dalla Consulta non c’è stata e, dunque, rieccoci qui. La premessa da cui muove il giudice è che il diritto alla libera espressione della propria affettività rientri, a tutti gli effetti, tra i diritti inviolabili dell’uomo trattandosi di uno degli essenziali modi di espressione della persona umana, di cui non si può essere privati neanche nel contesto penitenziario.
Si obietterà che possono esserci fondate ragioni di sicurezza che giustifichino tale limitazione. Verissimo, e a tale fondata obiezione replica lo stesso giudice a quo, osservando come in questo caso il detenuto – che si trova in regime di media sicurezza – già non vede sottoposti a controllo colloqui, conversazioni telefoniche e corrispondenza, motivo per cui inibirgli contatti intimi con la compagna non aumenterebbe in alcun modo la sicurezza.
La situazione cambierebbe qualora il detenuto fosse sottoposto al 41-bis, essendovi in quel caso precise limitazioni anche agli ordinari colloqui (e, dunque, a maggior ragione anche ai colloqui intimi). In altri termini, un conto è limitare tali diritti in presenza di motivate ragioni di sicurezza per la collettività, altro è farlo in situazioni in cui tale rischio concretamente non esiste. In questi ultimi casi, l’amputazione di un elemento costitutivo della personalità corre il rischio di tradursi in una vessazione – umiliante e degradante – che causa al detenuto una afflittività maggiore di quanto sia richiesto dalla condizione detentiva.
Altri parametri invocati dal giudice sono quelli della protezione della famiglia (che rischia di essere logorata dall'assenza di sessualità) e quello dell’umanità della pena (che trova fondamento nell'art. 27 c. 3 Cost.). Vi è, poi, il forte argomento sovranazionale: da un lato, sono moltissimi i paesi che conoscono, seppur con modalità differenti, i colloqui intimi in carcere; dall’altro, l’art. 8 CEDU riconosce ad ogni persona il diritto al rispetto della propria vita privata e familiare (sebbene la Corte abbia riconosciuto discrezionalità ai singoli paesi nella soluzione normativa da apprestare). Quello che renderebbe la normativa contraria anche all’art. 8 CEDU sarebbe il fatto che il nostro sia un divieto generalizzato e non collegato alla sussistenza di ragioni di sicurezza particolari.
Il 5 dicembre toccherà alla Consulta stabilire se l’indiscriminata limitazione alla sessualità per i detenuti – in assenza di ragioni legate alla sicurezza – sia legittima o meno. Relatore sarà il giudice costituzionale Stefano Petitt, autore della recentissima sentenza nel caso Regeni.
Vengono in rilievo le parole pronunciate pochissimi giorni fa dal giudice costituzionale Prof. Francesco Viganò, il quale, in occasione del saluto al Vicepresidente Prof. Nicolò Zanon (il cui mandato scadrà a breve), ha citato le conclusioni della sentenza n. 186/2018 sul 41-bis: «in definitiva, non si tratta di affermare, né per i detenuti comuni, né per quelli assegnati al regime differenziato, l’esistenza di un “diritto fondamentale a cuocere i cibi nella propria cella” (ossia la questione oggetto di quella pronuncia, ndr): si tratta, piuttosto, di riconoscere che anche chi si trova ristretto secondo le modalità dell’art. 41-bis o.p. deve conservare la possibilità di accedere a piccoli gesti di normalità quotidiana, tanto più preziosi in quanto costituenti gli ultimi residui in cui può espandersi la sua libertà individuale».
In questo caso non si parla di 41-bis e il diritto invocato è certamente diverso da quello oggetto della pronuncia del 2018, ma l’auspicio è che, in un periodo in cui il mondo carcerario sta vivendo una drammatica situazione – si pensi al numero elevatissimo di suicidi – e nel quale si stanno fortunatamente affacciando soluzioni differenti dalla mera risposta “carcerocentrica”, la Corte tenga in debita considerazione quella che, senza dubbio, è una forma di espressione della personalità.