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IL PRESIDENTE DEL CONSIGLIO GIORGIA MELONI
Il governo è sull'orlo di una crisi di nervi: l’attacco contro la Cassazione dopo la pronuncia sulla nave Diciotti è l’ennesimo segnale di un esecutivo che, preso dal furore iconoclasta, si scaglia contro il totem della giurisdizione. Un nervosismo che rischia di travolgere persino la riforma della giustizia, quella chimera che (quasi) ogni governo accarezza e poi sacrifica sull’altare della propria incompetenza.
Ma l’idea che la separazione delle carriere debba passare attraverso una guerra senza quartiere contro la magistratura è non solo ridicola, ma pericolosa e controproducente visto che ha un unico effetto: da un lato compattare una magistratura ben più balcanizzata di quanto voglia far apparire, e dall'altro risvegliare e rimobilitare un elettorato pro magistrati che era finito “in sonno” dopo gli scandali dell’hotel champagne.
Ma al di là delle considerazione politiciste, la giurisdizione, checché ne pensino certi amanuensi del populismo istituzionale, non è un ring in cui si misurano i muscoli, né un pollaio in cui ci si azzuffa per una manciata di grani di sovranismo. È un meccanismo di ingranaggi delicati, un gioco di equilibri, una liturgia che vive di buon senso, di limiti e di quel rispetto delle regole che ogni tanto bisognerebbe sfogliare, magari su qualche manuale giuridico invece che su un tweet infuocato.
E invece no. Un’hubrys trumpiana sembra essersi impossessata del governo, un’ebbrezza da reality show in cui il popolo è chiamato ad applaudire le bordate contro il “palazzaccio” di piazza Cavour. “Giudici contro il popolo!”, “Sentenze politiche!”, “Burocrati in toga!”: il repertorio è noto, un juke-box da bar sport. Peccato che la realtà sia ben altra e che tra i compliti della Cassazione non c’è quello di assecondare le aspettative del “popolo”.
Ma attenzione: se la destra si ostina a giocare la partita della riforma della giustizia alzando sempre il livello dello scontro, la sinistra non è da meno nel suo immobile compiacimento. Da anni, ormai, si pone come braccio politico della magistratura scambiando la divisione dei poteri per un abbraccio esiziale col “partito dei giudici”.
E ci tocca ricordare, a maggioranza e opposizione, che la separazione delle carriere altro non è che l’esito finale e inevitabile del processo accusatorio immaginato da Giuliano Vassalli, un ministro della Giustizia che ha passato l’inferno di via Tasso, ha conosciuto la tortura nazista e che (stiano tranquilli i magistrati che hanno sfilato con la Carta alla mano), aveva un legame profondo con la nostra Costituzione.
Questa riforma, insomma, non è un tecnicismo da salotto ma una necessità di sistema che ha un solo obiettivo: rafforzare i diritti dei cittadini. Come ha scritto qualche giorno fa Angelo Panebianco, per decenni la magistratura ha potuto bloccare le iniziative sgradite facendo la voce grossa, ma oggi potrebbe scoprire che questa strategia non funziona più. La compattezza della maggioranza sulla separazione delle carriere la rende la riforma più solida tra quelle proposte dal governo Meloni, ben più del premierato o dell’autonomia differenziata. Non ci sono divisioni interne, né timori elettorali a frenarla. E la sua natura rende difficile costruire un’opposizione credibile: in quasi tutta Europa è la norma, non l’eccezione. Gridare all’autoritarismo non è un’opzione praticabile.
Per questo il governo deve evitare la tentazione di ridurre tutto a una lotta tra poteri, a resa dei conti. La riforma della giustizia ha bisogno di lucidità, non di guerre.