La prescrizione si è estinta per consunzione. Da questo dato di realtà processuale bisogna necessariamente prendere le mosse per evitare le trappole del dibattito lunare oggi in corso, in cui ci si arrovella per stabilire se sia meglio l’improcedibilità cartabiense o il ritorno alla disciplina sostanziale ante Bonafede, accompagnata però da una sospensione triennale nel corso delle impugnazioni, sul modello Orlando.
Le cause della prematura scomparsa di un eminente istituto di garanzia sono abbastanza semplici da individuare. Negli ultimi vent’anni si sono susseguite almeno quattro sciagurate riforme che hanno prodotto due effetti di fondo, sia pure per strade e con modi diversi: aumentare a dismisura i termini di durata e distinguerli in funzione della tipologia del reato.
Il risultato attuale è una disciplina diacronica dipendente dal momento della commissione del reato e con tempi del tutto scollegati dalla vita delle persone.

Alcuni esempi? Il sequestro di persona a scopo di estorsione si prescrive in 60 anni, l’associazione finalizzata al traffico di stupefacenti in 40 anni, l’associazione per favorire l’immigrazione clandestina in 30 anni, morte o lesioni come conseguenza di inquinamento ambientale in 50 anni, omicidio stradale in 45 anni, violenza sessuale in 30 anni, violenza sessuale di gruppo in 35 anni, maltrattamenti in famiglia, se dal fatto deriva la morte, in 60 anni, corruzione in atti giudiziari in 30 anni, atti sessuali con minorenne in 60 anni, rapina ed estorsione in 25 anni, bancarotta fraudolenta aggravata in 18 anni e 9 mesi, furto in abitazione in 12 anni e 6 mesi, per non parlare dei reati di mafia e di quelli imprescrittibili.
Di fronte al disastro cronologico, discutere se sia meglio l’improcedibilità triennale o la sospensione sostanziale, peraltro sempre triennale, appare ipocrita e mistificatorio, ricorda molto da vicino il senso del tempo mostrato dal Cappellaio matto nei suoi famosi tè.
Per impostare seriamente un discorso politico sulla prescrizione bisognerebbe avere il coraggio di azzerare tutte le stratificazioni normative che ci restituiscono un sistema irrazionale di reati di fatto imprescrittibili, ponendo al centro il carattere assiologico di un istituto che deve garantire il giusto equilibrio nei rapporti fra pretesa punitiva e diritti fondamentali.
Oltre un certo limite di tempo, proseguire nell’accertamento significa non solo infliggere una irrimediabile pena processuale a un presunto innocente, ma anche rendere illusorio il giusto processo.

Nel sistema dei diritti costituzionali, la ragionevole durata è il predicato del giusto processo, ne diviene un requisito strutturale che segna il punto di equilibrio democratico nei rapporti fra autorità e cittadino: decorso un certo lasso di tempo o lo Stato è in grado di accertare compiutamente la responsabilità, vincendo la presunzione d’innocenza nel contesto di un giusto processo, oppure l’accusato deve essere per sempre liberato dal giogo della pretesa punitiva che fino a quel momento ne ha condizionato l’esistenza.
Il diritto soggettivo al giusto processo di durata ragionevole è una prospettiva ben lontana da quella di chi ritiene la durata ragionevole una mera previsione programmatica ovvero un controlimite da opporre ai diritti e alle garanzie dell’imputato, peraltro in nome di una presunta efficienza solo repressiva.
Spiace dirlo, ma anche nell’attuale discussione parlamentare il grande assente rimane la cultura delle garanzie, sovrastata dal calcolo politico di un leggero maquillage che lascia intatta la percezione sociale di un processo di durata tale da non consentire a nessuno di sottrarsi alla potestà punitiva.
Prima di affrontare le tecnicalità su estinzione dell’azione o del reato, sarebbe bene partire dall’idea che la durata del processo non può superare il limite della tollerabilità civile rappresentato plasticamente dalla giurisprudenza europea compendiata nei rapporti del CEPEJ: per rispettare la previsione dell’art. 6 § 1 CEDU, il processo penale, in tutti i suoi gradi di giudizio, non dovrebbe eccedere la durata di 8 anni e mezzo, termine ben inferiore all’attuale media della prescrizione che, considerate le sospensioni della Orlando o l’improcedibilità della Cartabia, si attesta a 10 anni e mezzo.
Eppure, 8 anni e mezzo di vita confiscata dalla pendenza del processo sono più di un decimo della esistenza media di un individuo, un limite oltre il quale il giogo processuale rischia di divenire una vera e propria pena inflitta indistintamente a tutti gli imputati, colpevoli o innocenti.
Scongiurare la pena processuale e garantire un processo cronologicamente giusto, oltre al finalismo rieducativo della eventuale sanzione penale, sono obiettivi politici che devono costituire la pietra angolare su cui edificare una seria riforma che non si perda in oziosi dettagli e guardi il problema nel suo insieme. Altrimenti saremo sempre destinati a chiederci, come Alice e il Bianconiglio, per quanto tempo è per sempre.