Un estratto dal libro di Filippo Facci; “30 aprile 1993. Bettino Craxi. L’ultimo giorno di una Repubblica e la fine della politica – Feltrinelli editore”. 

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L’ormai mitico Hotel Raphaël, prima degli anni ottanta, era un alberghetto malandato con le docce che gocciolavano e il parquet dissestato, ma la posizione, proprio dietro a piazza Navona, era fantastica. Il gestore era un grande amico di Craxi, più anziano di lui: si chiamava Spartaco Vannoni e veniva da una complicata storia comunista. Si diceva che fosse stato una spia della Stasi (i servizi segreti della Germania Est) e sicuramente aveva avuto una moglie cecoslovacca. Era stato segretario di Eugenio Reale, un comunista storico che nel 1956 aveva lasciato il partito per via del suo sostegno all’invasione sovietica dell’Ungheria; dopo di allora, Vannoni si era avvicinato ai socialisti autonomisti e ogni tanto ne accoglieva qualcuno nell’albergo. Craxi ci andò a vivere da quando divenne deputato, nel 1968. Poi nei weekend tornava a Milano, in via Foppa.

È sempre rimasto al Raphaël come se fosse casa sua: ci passavano anche i familiari, riceveva ospiti e messaggeri, faceva riunioni politiche. Vannoni è anche l’uomo che convinse Craxi a comprare quel terreno in Tunisia, ad Hammamet, dove poi costruirono la celebre villa. Il progetto è di Vannoni, che per primo acquistò il terreno per 6 milioni e mezzo di lire. Vannoni morì nel 1980, senza poter vedere il suo protetto diventare presidente del Consiglio.

Craxi continuò a vivere nella suite 601 al sesto piano, dove c’erano due grandi stanze, un tavolo da otto per le riunioni, tre divanetti rossi un po’ consunti e un terrazzo con doccia e vista sui tetti, oltre a un leggendario disordine di carte, giornali e libri. La grande scrivania Luigi XVI, quando la porteranno via nel 1994, non passerà dalla porta e dovranno usare una gru. Rispetto ai primordi, comunque, l’hotel si era ingentilito e aveva poltroncine di cuoio verde al bancone del bar, i posaceneri con lo stemma ufficiale giallo e rosso, al muro ceramiche di Picasso, alcuni busti neoclassici e oggetti d’arte maya. Ma tutto così, senza traccia di sfarzo. Dalla facciata, un cascame di vite vergine, glicine e bouganville.

Il disordine di giornali, nella suite, c’era anche perché Craxi li leggeva. Ai tempi si usava, dato che non c’erano tante rassegne stampa. E la lettura dei giornali del 30 aprile 1993 risulta impressionante oggi, come lo risultò allora. A parte la valenza in termini di influenza e copie vendute – imparagonabile rispetto ai nostri tempi –, molte prime pagine furono utilizzate come manifesti (o ne fu ritagliato il titolo principale) così da sbandierarle in infinite manifestazioni. In un paio di casi, c’è da pensare che fossero state confezionate proprio a questo scopo.

L’esempio più noto è quello della «Repubblica» con il titolo più grande della sua storia (Vergogna, assolto Craxi) che in dimensione superava la mezza prima pagina. Il direttore, Eugenio Scalfari, scrisse che era stato «il giorno più grave della nostra storia repubblicana»: «Non sembri azzardato l’accostamento: la negata autorizzazione a procedere nei confronti di Craxi ha la stessa valenza dirompente ed eversiva dell’uccisione di Moro. Forse c’è addirittura un filo nero che lega l’uno all’altro questi due avvenimenti a 15 anni di distanza ».

Paradossi a parte (Craxi fu il politico che più si prodigò a favore di una trattativa con le Brigate rosse che salvasse Aldo Moro), in basso si poteva leggere il titolo Dall’Italia un coro di proteste e poi quasi un appello: «A Roma, in Piazza Navona, il Pds ha invitato stasera tutti i cittadini che vogliono esprimere il loro dissenso contro il vecchio regime». Nella stessa prima pagina una vignetta di Giorgio Forattini con Craxi appeso a testa in giù, come a piazzale Loreto. L’invito in piazza Navona era dettagliato nelle pagine romane: «Il salvataggio di Craxi. Alle 18 manifestazione Pds. Fate sentire la vostra voce al 4982224. A Piazza Navona contro il colpo di spugna». Poi la foto del Parlamento con fuori due carabinieri. C’è da ritenere che l’appello abbia avuto un ruolo in quanto accadrà in serata proprio accanto a piazza Navona, all’Hotel Raphaël.

Scriveva Eugenio Scalfari dieci anni prima, il 26 ottobre 1983, sempre sulla «Repubblica»: «Che grinta quel Craxi! Che senso della posizione! Che audacia di gioco! Berlinguer lo attacca come se fosse lui il pericolo pubblico numero uno e lui quasi non gli risponde… Con Forlani adotta un atteggiamento di massima freddezza… Sull’aborto rintuzza papa Wojtyla e stende il manto socialista su tutto lo schieramento laico… Insomma un capo, col quale tutti dovranno fare i conti». Ora invece la cronaca di Sandra Bonsanti (pagina 3) aveva questi sapori: «Che sarà dei cittadini che nelle loro case ascoltano la storia di questi deputati che rivendicano un privilegio chiamato impunità, ma che prima di uscire sul grande piazzale hanno un momento di esitazione, di sincera paura?… ».

La cronista Cinzia Sasso – futura moglie dell’avvocato e sindaco di Milano Giuliano Pisapia – fu invece tra le poche, forse l’unica, a scrivere che le «assoluzioni» di Craxi in realtà non cambiavano granché: «Con la decisione di ieri, la posizione di Craxi diventa quella di un indagato per corruzione e violazione della legge sul finanziamento pubblico dei partiti. I magistrati possono cioè proseguire le indagini, con gli strumenti che il codice mette loro a disposizione eccetto le perquisizioni (vietate dal voto della Camera). Se Craxi, in caso di elezioni, non dovesse essere rieletto, sarebbe possibile per loro confermare tutte le accuse contro di lui, compresa la ricettazione che il voto di ieri ha fatto sparire… Dopo la formazione di un nuovo Parlamento, comunque, sarebbe sempre possibile ripresentare la stessa richiesta bocciata ieri».