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«In prigione, il problema principale per un detenuto è solitamente il passaggio molto lento del tempo, ma per me è sempre stato il contrario. Non mi piace che il tempo passi più velocemente perché penso che questi giorni e settimane che scorrono siano la nostra quota di vita che viene distrutta – il tempo che dovrei condividere con mia moglie, i miei figli e tutti quelli che amo». Seduto sul pavimento di una piccola cella di Evin, destinata a nove persone, Reza Khandan, attivista iraniano e marito dell’avvocata anti ayatollah Nasrin Sotoudeh, racconta la vita di un prigioniero politico nel suo Paese. La magistratura della Repubblica Islamica ha condannato Khandan a cinque anni di carcere con due accuse: per “assembramento e collusione contro la sicurezza nazionale” e un ulteriore anno per “attività di propaganda contro la Repubblica Islamica”. Il caso riguardava la produzione di spille su cui era scritto: “Mi oppongo al velo obbligatorio”.
La lettera è indirizzata al regista Jeff Kaufman e alla produttrice Marcia Ross, suoi sostenitori ed amici, che hanno raccontato la storia di Nasrin Sotoudeh nel 2020, in un documentario intitolato “Nasrin”. «Le prigioni iraniane non hanno tavoli o sedie - scrive Khandan -, ci sono solo letti a castello per tre persone. Un amico sta leggendo il giornale Ettelaat, che, nonostante le sue grandi dimensioni, non contiene quasi nulla di utile, essendo uno dei due giornali ufficiali del governo che non dovrebbero scrivere nulla per il popolo. Un altro amico sta leggendo L’anima incantata di Romain Rolland. Un terzo sta pranzando da solo, con tre ore di ritardo. Gli altri stanno dormendo o facendo faccende personali e di stanza».
Sei dei detenuti di quella stanza sono prigionieri politici. Tutti e sei sono già stati in carcere in precedenza. Reza Khandan è tra questi. Uno dei suoi compagni di prigionia, Zia Nabavi, è stato arrestato a seguito delle proteste del 2009, il cosiddetto “Movimento Verde”, e ha trascorso nove anni della sua vita in diverse prigioni. Giudicato colpevole di “inimicizia verso Dio” (10 anni), è stato inoltre condannato a 74 frustate per aver creato disagio nell’opinione pubblica. Adesso deve scontare altri due anni di carcere. Un altro giovane, Vahid Ghadirzadeh, è stato incarcerato dopo il suo precedente arresto per aver protestato contro l’hijab obbligatorio nella metropolitana di Teheran. Lui e i suoi amici – Armin Sorani, Saman Zandian, Mohammad Abolhasani e Moein Hajizadeh – sono stati tutti incarcerati per aver protestato contro l’hijab obbligatorio. Nonostante le sofferenze subite, i loro nomi non sono mai stati menzionati nei media.
Le sue parole offrono uno spaccato della repressione in Iran, una testimonianza che non è solo personale, ma un invito a non distogliere lo sguardo. Perché proprio grazie alla pressione della comunità internazionale la battaglia per i diritti umani ha fatto passi in avanti. «Dal momento in cui sono entrato nella Sezione 8 e ho visto il sovraffollamento nel piccolo spazio del reparto - aggiunge Khandan -, ho deciso immediatamente di protestare. Ho annunciato che, se le condizioni del reparto non fossero cambiate, avrei iniziato uno sciopero della fame». Poiché sono stato completamente ignorato dalle guardie carcerarie, ho iniziato il mio sciopero della fame il giorno successivo. Ovviamente, pochi minuti dopo l’inizio dello sciopero, mi hanno trasferito dalla sala di preghiera a una stanza considerata un posto migliore. Nei giorni seguenti, hanno evacuato l’intera ala dove si trovavano i prigionieri appena arrivati. Con questi cambiamenti nelle condizioni del carcere, ho deciso di limitare il mio sciopero della fame e di concluderlo dopo una settimana». Da qui la consapevolezza che sono proprio le proteste e l’attenzione della comunità internazionale a smuovere le cose, migliorandole, anche se di poco. «Il cambiamento nelle condizioni del carcere è stato dovuto alle numerose proteste e reazioni che avete avuto fuori dal carcere riguardo al mio arresto - continua il marito di Sotoudeh -, e questa paura delle autorità carcerarie era evidente. I visitatori vengono ancora costantemente e stanno cercando di apportare molte modifiche in carcere».
Proprio per tale motivo, Kaufman e Ross hanno deciso di condividere la lettera, lanciando inoltre la petizione “Free Reza” e chiedendo la sua liberazione incondizionata. «Immaginate di vivere la vostra giornata – al lavoro, a casa, con amici, con la famiglia – con il peso costante del pensiero che, in qualsiasi momento, la polizia possa bussare alla vostra porta e portarvi via - ha scritto Kaufman per Ms. Magazine -. Questa è la vita per le persone che vivono in regimi autoritari in tutto il mondo… E questa paura è diventata realtà per il mio amico Reza Khandan».