Il suo nome è diventato addirittura un aggettivo, come accade solo agli scrittori più grandi: “omerico”, “dantesco”, “shakespeariano” e, per l’appunto, “kafkiano”. Un contesto kafkiano – recita l’enciclopedia Treccani - è qualcosa di angoscioso ma, allo stesso tempo, di assurdo e paradossale, una situazione in cui l’individuo si ritrova imprigionato, intrappolato, umiliato e sopraffatto da un sistema tanto razionale quanto ottuso, labirintico, un sistema alimentato e sostanziato dalla burocrazia, autentico moloch della modernità.

Kafka però non illumina la ferocia cannibale dei tiranni o lo zelo dei comitati di salute pubblica, non mette a fuoco il sangue delle dittature o delle rivoluzioni ma il corso ordinario del dispositivo democratico. In questo rimane un autore decisamente attuale. La macchina burocratica come viene descritta ne Il Processo o nel Castello non è al servizio del fascismo o dell’ideologia totalitaria ma della democrazia, del mondo “libero” (per quanto poteva esserlo l’impero austroungarico) la distruzione psicologica dell’individuo, della sua umanità non si compie attraverso la violenza brutale o l’arbitrio, al contrario le regole, le norme, i codici, sono rispettati alla lettera, ed è proprio l’obbedienza pedissequa all’intrico dei protocolli, l’idolatria del canone a schiacciare il singolo.

L’opera che più evidenzia gli effetti disumanizzanti del mostro burocratico è forse America che mostra i dipendenti dell’Hotel Occidental ridotti a semplici ingranaggi di un macchinario alienante, un universo chiuso fatto di uffici, biglietterie, ascensori, dove le azioni si susseguono con frenesia robotica e gli impiegati emettono rumori «metallici» e lavorano «con la testa intrappolata in un cerchio di acciaio che incolla i ricevitori dei telefoni alle orecchie». Tutti hanno qualcosa da fare e nessuno parla mai con gli altri: «La gente andava e veniva velocemente. Nessuno salutava, questa formalità era del tutto eliminata, tutti si accontentavano di seguire le orme di chi li aveva preceduti e guardare il pavimento sul quale volevano avanzare il più velocemente possibile».

L’unico obiettivo di ogni azione umana è l’assolvimento razionale del compito, il rispetto della funzione nella divisione sociale del lavoro e tutto il sistema ruota attorno a questo principio, anche nelle sue articolazioni punitive. L’allucinante macchina della tortura mostrata nel racconto La Colonia penale non segue una logica vendicativa ma ultrarazionale così come, in America, gli uffici sofisticati impongono la loro logica di ultrarazionale della burocrazia.

Come scriveva lo stesso Kafka in un lettera a Felice Bauer «una macchina con le sue esigenze silenziose e serie mi sembra esercitare una costrizione più forte e più crudele di un essere umano... davanti al dittafono l’impiegato è degradato, ridotto allo stato dell’operaio che mette il suo cervello al servizio del ronzio di una macchina». Dietro il vetro opaco della burocrazia c’è un potere invisibile e incomprensibile, dalle ramificazioni grottesche come appare ne Il Castello, metafora contorta dello Stato e della sua amministrazione per quanto venata di elementi fantastici e misteriosi.

La sottomissione degli individui a questo dispositivo, ne assicura la perennità, i rapporti di potere sono interiorizzati, Kafka sottolinea sempre il ruolo delle illusioni e di tutte le tecniche per mantenerle in piedi da parte del sistema, tecniche di «stregoneria» avverte lo scrittore praghese, svelando il sostrato mistico della razionalità. Il livello di deferenza verso l’autorità può avere conseguenze estreme, il dominato ha interiorizzato la sua illegittimità, la sua nullità e il suo stato di prostrazione a tal punto che lui stesso si convince di meritare il suo infausto destino.

Se nelle dittature conta soltanto la forza coercitiva, indipendente dal grado di resistenza o di accettazione dei dominati, i regimi democratici hanno disperatamente bisogno dell’assenso della vittima, della sua “servitù volontaria” per dirla con La Boetie. Joseph K., nel Processo, è letteralmente sommerso dal senso di colpa e tutti gli ufficiali di giustizia che sembrano arrestarlo, giudicarlo, consigliarlo, sono solo gli elementi fittizi di un processo che si svolge in gran parte nella sua stessa mente.

Il tribunale è essenzialmente un tribunale interno e il coltello da macellaio con cui uno dei due carnefici lo uccide non è altro che il coltello con cui egli entra dentro se stesso, intimamente convinto di essere colpevole di qualcosa, arrestato per vivere nella paura, nell'angoscia. Non è altro che un povero diavolo che «non aveva fatto nulla di male», e di questo ne ha inizialmente coscienza, poi la consapevolezza si dirada, evapora, se la polizia è venuta a prenderlo, se la giustizia non gli dà tregua qualcosa di male avrà pur fatto, la sua soggettività collassa e Jospeh K. si convince che quello Stato onnipotente sia anche onnisciente, condannato a ubbidire e a non capire quel che gli sta accadendo.