Il convitato di pietra ha un nome e un cognome: Silvio Berlusconi, È la figura che fa ombra alla giustizia di Giorgia Meloni. Certo, se fosse ancora in vita, il Cav sarebbe il più appassionato sostenitore del ddl Nordio. Regalerebbe arringhe arroventate sulla separazione delle carriere.

Ma il suo paradigma è anche il paradosso che imprigiona dal 1994 ogni ipotesi di riassetto dell’ordinamento giudiziario. Ogni volta che la politica si azzarda a mettere mano alla giustizia come sistema, compare l’ombra del Cavaliere. Del vecchio centrodestra che, secondo gli avversari, voleva “spuntare le armi ai pm”. E perché? Perché i pm sono quelli che tuttora l’opposizione identifica come spauracchio non della politica in generale, ma del solo centrodestra, appunto. Sempre in virtù dell’epocale conflitto tra i governi Berlusconi e le toghe.

Ecco, oggi il problema è la polarizzazione, per la premier e per il suo guardasigilli Carlo Nordio. Lo spettro è la frattura del Paese in due tifoserie, come è stato fino all’ultimo Esecutivo del Cav: da una parte gli elettori di centrodestra, per lo più diffidenti nei confronti dell’ordine giudiziario, dall’altra gli elettori di centrosinistra, in gran parte tifosi delle Procure. Se di qui a un anno – quando con ogni probabilità la separazione delle carriere sarà sì approvata in via definitiva dal Parlamento ma dovrà essere sottoposta al referendum – davvero quella frattura si riproponesse, i rischi di una sconfitta del sì confermativo alla riforma Nordio sarebbero alti.

E così negli ultimi giorni la tendenza forse impercettibile ma in realtà chiara, nell’azione del governo sulla giustizia, è a una sorta di “disarmo”. La strategia è rimodulata in una chiave più prudente, meno accesa nei toni, meno incline allo scontro con l’Anm. Lo dicono tre indizi che, in termini processuali, farebbero una prova.

Primo, l’emanazione di un decreto sulle ordinanze cautelari in versione ultralight, diciamo pure spuntata. Nonostante ancora ieri sui giornali campeggiasse la denuncia del presidente Anm Giuseppe Santalucia secondo il quale solo «nei regimi liberticidi i processi sono segreti», il decreto che attua definitivamente la cosiddetta “legge Costa” lascia non solo libertà di stampa ma anche piena libertà di gogna.

Formalmente – “ordinatoriamente” ma in modo non “perentorio”, direbbero gli avvocati – il decreto legislativo approvato lunedì dal Consiglio dei ministri proibisce al giornalista di pubblicare in forma “letterale” gli atti dei gip. Di fatto però la norma non vieta, né avrebbe potuto farlo, al cronista di riferire i contenuti di un’ordinanza di custodia in carcere. E soprattutto, non introduce alcuna effettiva sanzione per i media che violassero il divieto: lascia intatta la solita, romanzesca multa da 51 a 258 euro prevista, nel 1930, da Alfredo Rocco, autore del codice penale fascista: erano centomila lire di minimo edittale, a quasi un secolo dal codice “mussoliniano” l’unica cosa che è cambiata è la valuta, la conversione in euro. E senza le sanzioni (che pure il Parlamento, nei propri “pareri”, aveva invocato) i divieti non esistono.

Secondo indizio: è scomparso dai radar l’illecito disciplinare, sollecitato soprattutto dalla Lega, che avrebbe dovuto dissuadere i magistrati “culturalmente orientati all’accoglienza dei migranti” dal far seguire, alle libere manifestazioni del loro pensiero, decisioni giurisdizionali sul tema. In teoria si dovrebbe risfoderare lo schema proposto, nel lontano 1997, da Marcello Pera durante i lavori del “Comitato Sistema delle garanzie”. In realtà quella nuova sanzione per le toghe, sparita all’ultimo dal decreto giustizia dello scorso 29 novembre (il Dl 178 del 2024), è destinata, forse giustamente, a perdersi nel nulla del futuribile.

Terzo indizio: ricordate il conflitto d’interessi di Federico Cafiero de Raho e Roberto Scarpinato con alcune indagini della commissione Antimafia, di cui i due parlamentari M5S (ed ex pm) fanno parte? Sparito pure quello. Non si hanno più notizie delle nuove regole che avrebbero dovuto precludere a de Raho e Scarpinato la partecipazione ad alcuni dei lavori di Palazzo San Macuto. Il conflitto d’interessi è affidato a una remota (nei suoi tempi d’approvazione) proposta di legge depositata dal centrodestra sia alla Camera che al Senato, ma che non è mai stata discussa né nell’uno né nell’altro ramo del Parlamento.

Basta? Crediamo di sì. Sono segnali, forse piccoli ma inequivocabili, che mostrano come Meloni e Nordio, con i dovuti tempi e modi, vogliano fare delle carriere separate la riforma più ecumenica possibile. Vogliono che sia la riforma di tutti, anche degli elettori di centrosinistra, almeno potenzialmente. E perciò sono disposti ad allentare la morsa su altri versanti del conflitto con la magistratura e, in generale, con l’opinione pubblica avversa.

Perché Meloni, sul “divorzio” fra giudici e pm, si gioca la propria ambizione di lasciare un segno nell’ordinamento costituzionale. E anche Nordio sa bene che non potrà essere ricordato per l’abolizione dell’abuso d’ufficio: lo si ascriverà tra i guardasigilli che hanno fatto la storia solo se riuscirà a separare le carriere. E riuscirà nell’impresa solo se allontanerà l’ombra della vendetta berlusconiana e, con questa, del regolamento di conti con la magistratura.