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Sentenza molto importante, in chiave garantista, quella depositata ieri dalla Corte costituzionale ( n. 197, redattore Francesco Viganò) per cui anche nei processi per omicidio commesso nei confronti di una persona familiare o convivente il giudice deve avere la possibilità di valutare caso per caso se diminuire la pena in presenza della circostanza attenuante della provocazione e delle attenuanti generiche. La Corte, riunendo tre casi in cui era stata sollevata la medesima questione di costituzionalità, ha dichiarato incostituzionale l’ultimo comma dell’art. 577 cp, introdotto dalla legge n. 69 del 2019 ( cosiddetto “codice rosso”). La norma vietava eccezionalmente al giudice di dichiarare prevalenti le due attenuanti rispetto all’aggravante dei rapporti familiari tra autore e vittima dell’omicidio.
Tra i tre casi presi in esame, c’è quello di Alex Pompa che il 30 aprile 2020 a Collegno ( Torino), uccise, a soli 18 anni, con 34 coltellate, il padre nel corso dell'ennesima lite di quest'ultimo con la madre. Assolto in primo grado, la Corte di appello invece non ritenne che l’imputato avesse agito in legittima difesa, ma gli riconobbe varie attenuanti, tra cui la provocazione e le attenuanti generiche, rimettendo il caso alla Consulta. Quest’ultima, come si legge in una nota, ha ritenuto, in particolare, che il divieto posto dalla norma censurata determini una violazione dei principi di parità di trattamento di fronte alla legge, di proporzionalità e individualizzazione della pena sanciti dagli articoli 3 e 27 della Costituzione.
«La norma impone infatti al giudice di applicare la stessa pena ( l’ergastolo o, in alternativa, la reclusione non inferiore a ventun anni) sia ai più efferati casi di femminicidio, sia a casi come quelli oggetto dei procedimenti principali, caratterizzati da significativi elementi che diminuiscono la colpevolezza degli imputati, e nei quali una pena così severa risulterebbe manifestamente sproporzionata». Come leggiamo in sentenza, «ogni omicidio lede in maniera definitiva una vita umana. E poiché ciascuna persona ha pari dignità rispetto a tutte le altre, ogni omicidio parrebbe avere identico disvalore. Eppure, da sempre il diritto penale distingue – nell’ambito degli omicidi punibili – tra fatti più e meno gravi. Già dal punto di vista oggettivo, alcune condotte omicide sono specialmente gravi: chi uccide la propria vittima dopo averle inflitto sofferenze prolungate, ad esempio, aggiunge ulteriore dolore al male di per sé insito nell’atto omicida. Ma è quando la condotta omicida venga riguardata dal lato dell’autore anziché da quello della vittima, che diviene agevole comprendere perché la gravità della condotta omicida sia suscettibile di significative graduazioni».
Nei tre casi esaminati si tratta di una situazione maturata «in contesti di prolungata e intensa sofferenza, causata da una lunga serie di soprusi e maltrattamenti posti in essere – colpevolmente o no – dalle stesse vittime». Alex, in particolare, viveva con il padre, la madre e il fratello. Il padre teneva da anni un comportamento persecutorio e intimidatorio nei confronti dei familiari, e in particolare della moglie, il che aveva indotto i due ragazzi ad assumere il ruolo di custodi della madre.
L’imputato e suo fratello, infatti, si erano fatti carico della protezione della donna, cercando di non lasciarla mai sola e di difenderla dalle più gravi aggressioni del marito. Così commenta al Dubbio il legale del ragazzo, Claudio Strata: «Tiriamo un sospiro di sollievo perché noi ovviamente abbiamo sempre creduto nella fondatezza della questione che abbiamo subito sollevata. D’accordo con noi anche molti esponenti dell’avvocatura e giuristi. Non abbiamo dunque sbagliato nel dubitare della norma che legava le mani ai giudici che devono essere liberi di decidere caso per caso e dosare la pena in base alle singole circostanze».
Ora la Corte di Assise di Appello di Torino dovrà fissare l’udienza e quindi, avendo già preannunciato la volontà di riconoscere le attenuanti prevalenti sulle aggravanti del rapporto di parentela, dovrà solo leggere il dispositivo condannando comunque il ragazzo ma alla pena più bassa – sei anni due mesi e venti giorni, di cui un anno e mezzo già scontato ai domiciliari - rispetto a quella che era in astratto ipotizzabile. Anche il pubblico ministero si era detto favorevole a sollevare il dubbio. Comunque aveva chiesto 14 anni, la pena minima possibile per un omicidio volontario, considerata altresì la semi infermità mentale del ragazzo accertata da una perizia psichiatrica. Strata comunque annuncia il ricorso in Cassazione per tentare di tornare all’assoluzione di primo grado. «Non desistiamo, siamo ancora più motivati».