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PALAZZO DELLA CONSULTA CORTE COSTITUZIONALE
Dopo l’udienza pubblica del 25 febbraio scorso la Corte Costituzionale ha emesso una sentenza storica, dichiarando incostituzionale la norma che limitava a due ore al giorno la permanenza all’aperto per i detenuti sottoposti al regime speciale di cui all’articolo 41 bis dell’ordinamento penitenziario. La decisione segna un punto di svolta nella tutela dei diritti dei reclusi, ribadendo che nessuna restrizione può trasformarsi in un “supplizio inutile” privo di giustificazioni concrete.
Ricordiamo che è stato audito l’avvocato Valerio Vianello Accorretti, del foro di Roma, difensore di Giovanni Birra, il detenuto sottoposto al regime differenziato nel supercarcere di Bancali.
Grazie al suo ricorso, il magistrato di sorveglianza di Sassari ha sollevato la questione di costituzionalità, ritenendola rilevante per la violazione di articoli fondamentali della Costituzione. La disputa ruotava attorno a un paradosso: mentre i detenuti in regime ordinario, dal 2018, godono di almeno quattro ore d’aria (riducibili a due per “giustificati motivi”), quelli in 41 bis erano vincolati a un massimo di due ore, riducibili a una solo in casi eccezionali. Una disparità che il Tribunale di Sassari aveva definito “ingiustificata”, sottolineando come il carcere di Bancali rendesse inefficace la stessa logica di sicurezza invocata per giustificare la restrizione.
Nella sentenza n. 30/ 2025, la Consulta ha accolto le tesi del ricorrente, dichiarando illegittimo l’inciso dell’articolo 41 bis che imponeva il tetto delle due ore. La Corte ha evidenziato due violazioni chiave. La prima è quella dell’articolo 3 della Costituzione (uguaglianza): la differenza di trattamento tra detenuti ordinari e quelli in regime speciale non trova giustificazione razionale.
Le esigenze di sicurezza, infatti, sono già garantite dalla rigorosa selezione dei gruppi di socialità (massimo quattro persone, scelte per evitare contatti illeciti). Limitare ulteriormente il tempo all’aperto non aggiunge protezione, ma crea una disparità discriminatoria. La seconda è la violazione dell’articolo 27, comma 3 (finalità rieducativa): la Corte ha sottolineato che una permanenza all’aperto insufficiente ostacola il reinserimento sociale, trasformando la detenzione in una punizione “contraria al senso di umanità”.
La questione relativa all’articolo 32 (diritto alla salute) è stata considerata assorbita dalle altre violazioni, ma la Corte ha comunque riconosciuto l’importanza della luce naturale e dell’aria per il benessere fisico e psicologico, specie per detenuti condannati a pene lunghe.
Uno dei passaggi più significativi della sentenza smonta l’argomento chiave dell’Avvocatura dello Stato, secondo cui ridurre le ore d’aria diminuirebbe “probabilisticamente” i rischi di collusioni. La Corte ha replicato che, se i gruppi di socialità sono ben selezionati, trascorrere più tempo all’aperto non aumenta i pericoli. Al contrario, se la selezione è inefficace, anche due ore sono sufficienti per accordi illeciti. La sicurezza, spiega la Corte, dipende dalla qualità della sorveglianza e dai criteri di formazione dei gruppi, non dalla quantità di ore. Inoltre, ha richiamato precedenti decisioni (come la sentenza n. 97/ 2020 sul divieto di scambio di oggetti), in cui era già stato stabilito che restrizioni non funzionali alla sicurezza violano i principi costituzionali.
Come rivela la Consulta, fino a qualche anno fa la norma prevedeva per il 41 bis la possibilità di un tempo massimo di permanenza all’aperto pari a quattro ore, con una disposizione di riduzione che, dopo la modifica intervenuta con la legge n. 94 del 2009, era stata inasprita a due ore e in gruppi non superiori a quattro persone. La specificità di tale regime è quella di contenere il rischio che detenuti appartenenti a organizzazioni criminali possano continuare a mantenere contatti e scambi di informazioni anche dall’interno del carcere. Di fatto, dunque, si torna a quanto previsto prima del 2009.
In definitiva, la Corte ha stabilito che la rigidità del limite delle due ore al giorno non solo non trova un fondamento adeguato in termini di sicurezza, ma risulta anche incompatibile con la finalità rieducativa della pena, costituendo una misura eccessivamente punitiva e in violazione dei principi costituzionali. Questa sentenza si inserisce in un solco giurisprudenziale consolidato. Già nel 2013, la Consulta aveva bocciato i limiti ai colloqui con i difensori nel 41 bis e, nel 2020, aveva abolito il divieto di scambio di oggetti tra detenuti dello stesso gruppo. Ogni volta, il principio è lo stesso: le restrizioni devono servire a uno scopo concreto, non a infliggere un surplus di pene inutili.