All’esito della nota sentenza De Tommaso/ Italia, che aveva giudicato troppo vaghe e, pertanto, prive di effetti precettivi le norme che definivano i casi di pericolosità sociale generica nei procedimenti di prevenzione, si è registrata la consueta levata di scudi, a difesa di questo “eccezionale strumento” che, secondo qualche visionario, “l’Europa ci invidia”. La giurisprudenza, persino quella costituzionale, si era così affrettata a dire che, sì, la Legge era di scarsa qualità, ma le sentenze ne avevano scolpito, nel tempo, un significato chiaro, definito, accessibile.

Poco importava se, come sempre, il cesello dei giudici non avesse solcato il freddo marmo, ma la carne viva di tanta gente, sacrificata a questi esperimenti di ibridazione tra legge e sentenze. Occorreva salvare la prevenzione. E così è stato. Con eccessiva hybris, però, dal momento che il sistema non si è accontentato di autogiustificarsi ed autoassolversi, ma ha preteso di farlo “ora per allora”. La giurisprudenza, secondo se stessa, ha tassativizzato la norma con efficacia retroattiva. La reazione dello Stato, divenuta prevedibile solo nel 2015, si è abbattuta anche su condotte tenute, ad esempio, nel 1990. A fronte di tale monolitica autoreferenzialità, era dunque logico che passasse quasi sotto silenzio in Italia una recente sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, pubblicata lo scorso 26 settembre, che ha deciso il caso Gangemi/ Italia (Ricorso n. 59233/ 17). Una decisione che annichilisce nuovamente le velleità nazionali di perpetrare la “truffa delle etichette”. Anche questo caso, come il suo precedente più diretto – De Tommaso – riguardava una ipotesi di pericolosità generica. Ed anche in questo caso, il ricorrente lamentava l’assenza di base giuridica per l’applicazione della misura di prevenzione, sotto il duplice aspetto della chiarezza della norma e della prevedibilità della sanzione.

Il governo Italiano ha contrastato il ricorso, ritenendo che il ricorrente, non avendo mai esperito il rimedio straordinario della revocazione, non avesse esaurito le vie giurisdizionali interne. Circostanza che avrebbe reso il ricorso irricevibile. Nel merito, ha eccepito la sufficiente definizione dei casi e dei modi dell’azione di prevenzione ad opera della giurisprudenza domestica.

I giudici di Strasburgo hanno rigettato, con argomentazioni particolarmente dure, chiare e di elevato spessore, le tesi difensive pubbliche. Sul versante processuale, infatti, essi hanno dovuto ricordare al governo che la revocazione disciplinata dall’articolo 28 D. L. vo 159/ 11 – che, essendo impugnazione di carattere straordinario, non rientra in ogni caso nel novero dei procedimenti interni da esperire, per potersi rivolgere alla Cedu – è limitata alla rimozione delle misure di prevenzione patrimoniali, mentre il caso riguardava una misura personale.

Una svista imperdonabile della parte pubblica, dunque. Ma è nel merito, che la sentenza spiega nuovi devastanti effetti sulla complessiva tenuta del sistema. La Corte Edu, infatti, ricorda innanzitutto che, nella sentenza De Tommaso/ Italia del 2017, non si era fatta alcuna distinzione tra le due ipotesi di pericolosità generica all’epoca censurate, ritenute entrambe prive di chiarezza e prevedibilità, ai sensi della Convenzione. Ciò contrasta con la tesi, avallata dalla Corte Costituzionale, che la norma in questione sia stata tassativizzata dalla giurisprudenza a far data dalle SSUU Spinelli (2015). Un altro colpo, dunque, alla qualità della Legge che fissa i requisiti soggettivi di pericolosità.

Il concetto viene ribadito quando i Giudici di Strasburgo, nel prosieguo della motivazione, si dicono non convinti dell’argomentazione del governo Italiano, secondo cui la base giuridica delle misure di prevenzione sarebbe diventata prevedibile alla luce dell’interpretazione dell’articolo 1 del Cam fornita, in ultimo, dalla sentenza della Corte Costituzionale 24/ 2019.

Il tema, peraltro, non viene neanche approfondito, sulla base della constatazione tranchant che la pronuncia del Giudice delle Leggi è successiva rispetto ai fatti del caso di specie. In poche righe, dunque, la Cedu smaschera la truffa della retroattività delle norme di prevenzione e soprattutto della “giurisprudenza tassativizzante”, che non vale a sanare il difetto di prevedibilità. Da un lato, dunque, la Corte europea continua a ritenere prive di “qualità” le disposizioni normative nazionali in punto di pericolosità sociale generica, reputando che la giurisprudenza non abbia emendato il vizio genetico della Legge.

Dall’altro, sostiene in ogni caso che la produzione giurisprudenziale, anche ove idonea a tale scopo, non possa trovare applicazione ad ipotesi di fatto precedenti al consolidamento della interpretazione. Cadono, dunque ( e nuovamente), due Moloch della prevenzione: la possibilità di attribuire alla giurisprudenza un ruolo significativo di formante della norma e la retroattività in malam partem. Mentre l’Italia continua a rimanere arroccata su posizioni ormai indifendibili.