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©MARCO MERLINI/LAPRESSE 21.11.2001 ROMA INTERNI NELLA FOTO IL PALAZZO DI GIUSTIZIA SEDE DELLA CORTE DI CASSAZIONE
«Bastava leggere le carte senza pregiudizio», spiega al Dubbio l’avvocato Guido Contestabile, che, insieme all’avvocato Salvatore Staiano, difende Rocco Santo Filippone. Quest’ultimo, insieme a Giuseppe Graviano, è imputato nel processo ’ ndrangheta stragista. La dichiarazione arriva all’indomani dell’annullamento del processo, con rinvio, deciso dalla Corte di Cassazione. Dunque, tutto da rifare. Una decisione che non deve stupire, considerando che la tesi accusatoria, sostenuta dal procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo e accolta dai giudici di primo e secondo grado, rappresenta una sorta di appendice del processo palermitano sulla “trattativa Stato-mafia”, tesi già sconfessata dalla sentenza d’appello e completamente demolita dalla stessa Cassazione.
Proprio in riferimento alle carte, l’avvocato Contestabile sottolinea al Dubbio che ci sarebbe stata una «forzatura» nell’uso delle prove nel processo, riferendosi a come sono state acquisite tramite testimonianze successivamente ritrattate e giudicate comunque credibili. Due gradi di condanna, quindi, sono arrivati nonostante l’assenza di prove dirette, basandosi esclusivamente su “residui probatori” (elementi indiziari o frammenti di prove) a sostegno dell’accusa.
Le motivazioni del processo calabrese, collegate al teorema dell’allora procura di Palermo, non hanno retto al vaglio della Corte Suprema. Alla fine, non si è riusciti più a “unire i puntini” di questa complessa narrazione, che interpreta la storia politica e sociale del nostro Paese attraverso la lente della “trattativa Stato- mafia”. Il tema riguarda il movente di una serie di agguati — tre in totale, due dei quali letali — contro militari dell’Arma dei Carabinieri, avvenuti in un breve arco temporale tra dicembre 1993 e febbraio 1994. La tesi accusatoria proponeva un nuovo movente per il duplice omicidio dei carabinieri Antonino Fava e Vincenzo Garofalo e per i gravi ferimenti causati dagli attacchi.
Gli esecutori materiali, Giuseppe Calabrò e Consolato Villani, sono stati individuati e condannati definitivamente. Tuttavia, alcuni pentiti calabresi, tra cui proprio i due condannati, hanno successivamente cambiato versione sul movente, accusando il mafioso Giuseppe Graviano e lo ’ndranghetista Rocco Santo Filippone, imputati nel processo “’ndrangheta stragista”.
Calabrò, in seguito, ha ritrattato, dichiarando di essere stato sotto pressione e di aver inventato tutto. L’accusa, però, non gli ha creduto, un aspetto che l’avvocato Contestabile ritiene dimostri la scarsa spontaneità delle sue dichiarazioni. Tra i pentiti spicca anche Nino Lo Giudice, una figura controversa che, in ogni colloquio investigativo, sembra assecondare qualunque tesi: dalle “donne bionde” presenti alle stragi, alla figura di “Faccia di mostro”, persino coinvolto nella strage di via D’Amelio, fino a sostenere la teoria della “‘ ndrangheta stragista”. In sostanza, secondo l’accusa, quegli agguati — affidati a dei ragazzi, uno dei quali aveva appena 17 anni — non sarebbero stati fatti locali, ma un contributo della mafia calabrese alle stragi del 1993 volute da Cosa Nostra. Ma c’è di più: in linea con la tesi palermitana sconfessata e con quella fiorentina ancora in corso, nelle motivazioni di condanna i giudici hanno scritto che è «assai probabile» che, oltre alla ‘ ndrangheta e a Cosa Nostra, vi fossero «mandanti politici che, attraverso la “strategia della tensione”, volevano evitare l’avvento al potere delle sinistre». Ma si può davvero scrivere «assai probabile» in una sentenza? È corretto che i giudici affrontino i reati con un approccio pseudo-storiografico? Lo storico Salvatore Lupo, in un’intervista a Il Foglio all’indomani della sentenza di Cassazione sulla “trattativa”, si è dichiarato offeso, spiegando che la storiografia ha una sua nobiltà, basata sull’analisi di fatti e documenti certi.
E a proposito di documenti certi, l’avvocato Contestabile ricorda al Dubbio l’esito del processo “Galassia”. Nell’ormai lontano 1995, si trattò di una delle operazioni più vaste condotte contro la ‘ndrangheta, sia per il numero di persone coinvolte sia per la loro rilevanza criminale. Ebbene, emerse l’inesistenza di un coinvolgimento della ‘ ndrangheta calabrese nelle stragi mafiose siciliane, respingendo l’ipotesi di una collaborazione tra le due organizzazioni criminali. Tale conclusione si basava sulle dichiarazioni di diversi collaboratori di giustizia. Nonostante si tratti di sentenze definitive, questo dato è stato ignorato.
Non sorprende che, come accade in questi processi clone, emergano racconti stravaganti. Al processo d’appello, infatti, è spuntato un pentito, tale Bruzzese, che ha raccontato ai magistrati un episodio a cui avrebbe «assistito personalmente», avvenuto «nel 1978- 1979, poco dopo l’omicidio di Aldo Moro».
Secondo Bruzzese, ci sarebbe stato un summit tra le cosche di Gioia Tauro, svolto nel luogo dove suo padre trascorreva la latitanza. Tra i partecipanti, sostiene, c’erano anche Berlusconi e Craxi. Ma Bruzzese non si è fermato qui: ha fatto un excursus storico sui rapporti tra mafia e politica, inquadrandoli anche nel contesto internazionale. Ha sostenuto che Licio Gelli, capo della P2, non accettasse più la politica di Craxi e Andreotti, considerata contraria agli interessi degli Stati Uniti, che avrebbero condiviso tale posizione. In sostanza, nel processo “’ndrangheta stragista”, i pentiti hanno compiuto un salto di qualità: dalla storia, sono passati direttamente alla geopolitica.