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Sono un operaio del diritto, che lavora nel “cantiere” della tutela delle persone, delle relazioni familiari e dei minorenni con le “mani sporche di malta” quotidianamente. Incontrando e avendo incontrato centinaia forse migliaia di realtà familiari. Prendo la parola timidamente e con rispetto per le opinioni altrui, portando la prospettiva non solo mia, ma della mia associazione che della tutela e promozione dei diritti fondamentali dei soggetti vulnerabili anche nelle relazioni familiari ha fatto la sua cifra e la sua ragion d’essere. Come negare che la violenza intrafamiliare è di genere che ha come vittime per lo più le donne? Non hanno valore le statistiche dei femminicidi che sono solo la punta di un orrido iceberg sommerso che affonda le sue radici in una sottocultura di svalutazione della donna come persona e della sua dignità? Altrimenti il fenomeno della ricorrenza statistica dei femminicidi non è spiegabile. E ho - abbiamo - potuto constatare che la violenza di genere è agita sul piano fisico, psicologico, economico dallo stesso soggetto, casomai in tempi diversi e come la violenza economica ( pure richiamata dalla Convenzione di Istanbul) sia sottovalutata. La violenza è multiforme, e il soggetto violento la agisce molto spesso su tutti i piani. Se impedito da provvedimenti restrittivi su piano fisico e psicologico, non è raro che si trasformi in violento economico, lesinando risorse al nucleo madre- figli. La violenza non è certo da confondersi con il conflitto: vi sono segni distintivi delle due realtà. D’altra parte, il fatto che molte, troppe donne siano vittime di violenza non vuol dire che ciò ne esaurisce il fenomeno della violenza domestica: esistono anche uomini che subiscono violenza, minoranza meritevole di tutela. E vi sono altri soggetti vulnerabili come anziani e persone con bisogni speciali vittime di violenza. Quando la vittima assomma in sé varie vulnerabilità ( ad es. donna disabile, persona anziana disabile) si tratta di violenze che stentano ad emergere perché non vi sono evidenziatori sociali, come è la scuola per i minorenni. La violenza si consuma nelle mura domestiche quotidianamente, con violazione quotidiana della dignità della vittima: non è da confondersi con il conflitto, vi sono segni distintivi. Della situazione anche di questi soggetti vulnerabili si dovrebbe parlare di più e chiedersi come attivare strumenti di tutela adeguata. Certo che anche nelle situazioni “classiche” di violenza di genere gli strumenti di contrasto sono deboli, se si considera che la vittima deve affrontare vari giudizi, davanti diversi giudici, con spese insopportabili e tempi dilatati: procedimento penale, procedimento minorile a iniziativa del pm se c’è segnalazione; separazione personale o procedimento per affidamento figli con procedimento di alimenti per sé, a seconda che sia coniugata o meno. Procedimento per il risarcimento del danno per non contare l’eventuale richiesta di ordini di protezione in sede civile. Frazionamento delle competenze e differenza di riti non consente la concentrazione delle tutele. Quanti giudici per ottenere giustizia? Spero che queste situazioni in sede di Commissione emergano, perché si tratta proprio di quelle “anomalie” del sistema da eliminare perché confliggono di per sé con la tutela dei soggetti vulnerabili.
Non sono uno psicologo ma in tanti mi hanno spiegato che i bambini testimoni di violenza subiscono un vulnus alla salute psico- fisica non inferiore a quella dei bambini vittime di violenza diretta: ma come “operaio del diritto” so per certo che agire violenza davanti a un bambino nei confronti dell’altro genitore, del nonno, del fratello, viola diritti fondamentali della persona di età minore: quello al miglior sviluppo psico- fisico, quello all’educazione, che ha contenuti precisi ai sensi dell’art. 29 della Convenzione Onu sui diritti del fanciullo che impone il rispetto dell’altro genitore. Insegna una modalità dialogica distorta e perversa tra generi che è destinata spesso a riproporsi: una specie di “bomba atomica” della violenza, come l’atomo che si scinde e provoca il mostruoso “fungo di morte”. Violenza genera violenza e la perpetua. Sull’altro versante, debbo dire che ho visto nella mia vita professionale crescere le situazioni di rifiuto da parte del figlio minore, dell’altro genitore. La “Sindrome di rifiuto o rigetto” esiste, si alimenta del disprezzo e della paura che il genitore convivente (“riottoso o riluttante” lo definisce la Corte di Strasburgo) ha dell’altro, crea un’alleanza perversa tra il primo e il minorenne. Tale situazione è lesiva dei diritti di quest’ultimo, oltre che del genitore rifiutato: alla costruzione corretta della propria identità, che si deve “nutrire” dell’apporto paritetico di entrambi i genitori suo piano affettivo, educativo, culturale, salvo casi eccezionali in cui il comportamento di uno di questi sia pregiudizievole per il sano sviluppo psico- fisico del minorenne che coincide con il suo best interest. Alimentare questo rifiuto e rigetto dell’altro, da parte del genitore convivente, vuol dire quantomeno accondiscendere a una mutilazione identitaria ed affettiva del proprio figlio, farlo crescere nella convinzione che i “rapporti scomodi” siano eliminabili: e ciascuno di noi sa che nella vita invece i rapporti scomodi vanno gestiti. Insomma assecondare il rifiuto dell’altro genitore da parte del figlio minorenne vuol dire agire quantomeno in modo contrario al suo stesso interesse. Il fenomeno non riguarda solo l’Italia ma tutti i Paesi del Consiglio d’Europa: schedando circa 350 sentenze della Corte di Strasburgo in materia di famiglia per il portale www. ceduincammino. it, i casi di rifiuto o rigetto sono circa 40. Una percentuale decisamente significativa. Ed è vero che, essendo per lo più le madri i genitori conviventi, sono loro che statisticamente assecondano tale fenomeno contrario all’interesse dei propri figli, talvolta ritrovandovi l’eco delle proprie istanze esistenziali. Da questo punto di vista spero che la Commissione consideri le molte condanne di Strasburgo all’Italia, richiamata a fornirsi di uno “strumentario giuridico adeguato”. Infine è vero che i figli vengono collocati quasi sempre presso le madri, ma forse bisogna chiedersi se ancora nel nostro Paese non siano loro a prendersene cura in modo prevalente durante la convivenza genitoriale. Certo sarebbe davvero necessaria una maggiore attenzione al caso concreto, perché vi è quasi una “presunzione” che sia sempre così e i padri accudenti debbono dimostrare al giudice di esserlo, mentre non così le madri, considerate ex se capaci della miglior tutela. In realtà nel nostro Paese i padri sono sempre più spesso - al pari o quasi delle madri - amorevolmente partecipi di cura e accudimento della prole anche lattante mentre ancora prevalgono in certa giurisprudenza schemi culturali obsoleti, anche talvolta per l’abnorme carico di lavoro che impedisce la dovuta attenzione al caso concreto. Certo la complessa fenomenologia dell’universo familiare nella società contemporanea esige una riconsiderazione complessiva, sia dal punto di vista sostanziale, sia da quello ordinamentale e processuale, ritrovando la chiave di volta del sistema nella tutela rafforzata dei soggetti vulnerabili. Tante le riforme non più differibili, e da costruire con animo “laico”.
* presidente nazionale di Cammino- Camera Nazionale Avvocati per la Famiglia e i Minorenni