Leggo, sulla prima pagina de Il Dubbio dell’ 11 gennaio corrente, le dichiarazioni virgolettate del sindaco di Pesaro, Matteo Ricci: “Amici Democrat, credetemi: abolire l’abuso di ufficio è una vittoria”.

Sarà pure, io dico, ma è una vittoria cantata troppo presto, un entusiasmo prematuro.

Questa riforma, a mio avviso, non metterà al riparo da responsabilità penali i buoni amministratori locali che, inconsapevoli, sottoscrivono atti amministrativi di dubbia legittimità predisposti dai loro collaboratori.

Provo a spiegare le ragioni del mio pessimismo.

Il reato previsto e punito dall’articolo 323 codice penale ha due facce: il favoritismo e l’ingiusto nocumento.

Se il pubblico ufficiale pone in essere un atto in violazione di legge o di altre regole normative e tale atto favorisce qualcuno o danneggia ingiustamente qualcun altro, ebbene ricorre, in entrambe le ipotesi, la fattispecie penale dell’abuso di ufficio.

Nel caso dell’ingiusto nocumento, in effetti, abolire l’abuso d’ufficio significa che il pubblico funzionario, violando una legge o un regolamento, potrebbe arrecare un ingiusto nocumento a terzi, senza rispondere di abuso d’ufficio.

Nulla vieta però che egli ne risponda civilmente, a titolo di risarcimento. Nulla vieta che ne risponda per danno erariale, dinanzi alla Corte dei conti. Nulla vieta che la condotta sia qualificata diversamente anche dal giudice penale, assumendo rilievo ad altro titolo.

La condotta di chi danneggia illegittimamente qualcun’altro può essere invero qualificata, per il modo in cui si atteggia, come usurpazione di funzioni, rifiuto od omissione di atti d’ufficio, rivelazione di segreto d’ufficio, interruzione di pubblico servizio ed altro ancora.

La condotta di chi favorisce illegittimamente qualcuno può, altresì, rientrare nella previsione del traffico di influenze illecite, ovvero in quella, ancor più grave, dell’induzione indebita a dare o promettere utilità. In particolare, è quest’ultima fattispecie, prevista dall’articolo 319- quater del codice penale, la più suscettibile di prendere il posto dell’abuso d’ufficio, nel caso del favoritismo.

“Salvo che il fatto costituisca più grave reato, il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio che, abusando della sua qualità o dei suoi poteri, induce taluno a dare o a promettere indebitamente, a lui o a un terzo, denaro o altra utilità è punito con la reclusione da sei anni a dieci anni e sei mesi”.

Il pubblico amministratore non agisce mai da solo. I suoi atti devono essere oggetto di esecuzione da parte di pubblici funzionari, mediante determinazioni, certificazioni, impegni di spesa, attestazioni di copertura finanziaria e altro.

Porre in essere un atto illegittimo è considerabile come abuso del proprio potere. Se tale atto poi induce, in qualche modo, un altro funzionario pubblico ( che non può sottrarsi all’ordine) a dare a terzi una qualche utilità, si rischia di scivolare inconsapevolmente nell’induzione indebita, che è ben più grave dell’abuso d’ufficio.

La cosa discutibile e antipatica di tale ipotizzabile derapage interpretativo è che la riqualificazione dell’abuso come induzione indebita funzionerebbe con il favoritismo ma non con l’ingiusto nocumento, sicché il dilemma tra il dare o negare un’utilità potrebbe spingere molti amministratori pubblici a negare utilità ai cittadini, pur di non incorrere nella grave responsabilità penale o per evitare di esserne sospettati o indiziati.

In altre parole, l’abolizione del delitto di cui all’art. 323 c. p. potrebbe diventare un boomerang per i pubblici amministratori, tale da renderli ancor più timorosi di firmare gli atti amministrativi.

Da ormai 15 anni io sono tornato al mio mestiere di magistrato amministrativo, ma nel 2008 ero sindaco di Foggia e vice- presidente nazionale A. N. C. I.; in quella veste, proposi all’Assemblea A. N. C. I., che l’approvò ( ma rimase lettera morta), un documento programmatico che recava, in allegato, un’idea di articolato normativo basata su un semplice assunto: nessun funzionario pubblico, men che meno un amministratore pubblico dovrebbe rispondere penalmente per aver votato o sottoscritto un atto amministrativo che lo stesso non ha contribuito a redigere, a meno che non si provi che egli abbia imposto al redattore dell’atto la forma e il contenuto dell’atto medesimo, nel modo in cui è stato poi predisposto, approvato e pubblicato. Ciò in quanto non si può imporre all’amministratore pubblico un livello di conoscenza giuridica tale da renderlo consapevole delle insidie celate dietro il linguaggio tecnico in cui l’atto amministrativo è formulato.

In sostanza, si tratta di prevedere un’esimente speciale, piuttosto che di abolire fattispecie penali per condotte che possono essere diversamente qualificate conservando il loro rilievo penale, in modo persino peggiorativo.

* Magistrato amministrativo, presidente di sezione Tar Puglia Ex sindaco di Foggia ( Pd) ed ex vicepresidente Anci