Anche le interdittive antimafia sono finite al vaglio della Cedu. Nei prossimi mesi, infatti, la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo sarà chiamata a pronunciarsi sulla rispondenza ai principi convenzionali non solo delle misure di prevenzione personali e patrimoniali ablative, disposte dalla Autorità giudiziaria, ma anche di quelle amministrative, quale è l’informativa interdittiva antimafia.

Un’altra peculiarità della prevenzione, infatti, è di non essere presidiata pienamente dalla riserva di giurisdizione, con conseguenti asimmetrie nella valutazione dei presupposti applicativi delle misure.

L’interdittiva, in particolare, viene emessa dal prefetto quando questi abbia sospetti di “tentativi” di infiltrazioni mafiose nell’impresa, al fine di inibire all’imprenditore ogni contratto ed ogni contatto con la Pubblica amministrazione. Gli effetti sono però più ampi, determinando usualmente la revoca degli affidamenti bancari e, di conseguenza, la cessazione dell’impresa.

Limitato è poi il sindacato del Tar, giudice competente a decidere sui ricorsi avverso l’interdittiva, il quale, pur disponendo in questa materia di un sindacato di merito, spesso si arresta a quello di legittimità proprio della valutazione dei vizi dell’atto amministrativo, senza affrontare la congruità logico- ricostruttiva della motivazione dello stesso.

Ora, finalmente, i Giudici convenzionali pongono al Governo Italiano dei quesiti ai quali sarà difficile dare una risposta convincente, rispetto all’effettivo carattere delle misure di prevenzione e alla rispondenza del procedimento ai canoni del giusto processo.

Vuol sapere, innanzitutto, la Corte di Strasburgo se i ricorrenti abbiano avuto la possibilità di sottoporre le loro contestazioni a un “tribunale” con “piena giurisdizione” ai sensi della giurisprudenza sviluppata dalla Cedu in relazione all'articolo 6 § 1 della Convenzione, e se le norme applicate nel caso di specie, contenute nel decreto legislativo 159 del 2011, costituiscano una base giuridica sufficientemente accessibile, chiara e prevedibile, secondo le autorevoli indicazioni contenute nella nota sentenza De Tommaso.

Ma, soprattutto, i giudici convenzionali chiedono all’Italia se l’ingerenza nella attività dell’impresa sia proporzionata, alla luce della interpretazione dei giudici nazionali dell’articolo 86 del decreto legislativo 159/ 2011, stante la tendenzialmente illimitata durata nel tempo di questa misura di prevenzione, non a torto definita un “ergastolo imprenditoriale”.

La Corte europea dei Diritti dell’Uomo ha colto evidenti profili di contrasto della normativa nazionale con i principi convenzionali, stante la indeterminatezza delle condizioni che possono consentire al prefetto di emettere il provvedimento interdittivo, che, incidendo sulla libertà di iniziativa economica (garantita dall’articolo 41 della Costituzione), dovrebbe invece essere ancorato a basi legali chiare, precise, predeterminate e prevedibili.

La norma nazionale, invece, fa riferimento a “tentativi di infiltrazioni mafiosa”. Espressione del tutto generica e oscura, idonea a consentire (come difatti avviene) una tale anticipazione della soglia di intervento statale, da determinare l’aggressione non solo degli imprenditori “compiacenti”, ma anche di quello “soggiacenti”, vittime, cioè della pervasività criminale mafiosa. Ma i giudici di Strasburgo si domandano anche se l’interdetto goda di un diritto di difesa effettivo, che possa essere esplicato avanti ad un giudice dotato di pieni poteri di cognizione.

Il riferimento a principi quali “precisione” e “prevedibilità (corollari della legalità formale), “effettività della difesa” e, soprattutto, “proporzionalità” è, nella sostanza, un refrain rispetto alle ordinanze interlocutorie rese nei procedimenti Cavallotti e Macagnino+ 27, in tema, rispettivamente, di pericolosità sociale qualificata e generica. Si tratta di principi – la proporzionalità, in particolare – che evocano il concetto di sanzione penale. Il sospetto che la Cedu sembra nutrire sull’effettivo carattere delle misure di prevenzione pare essere proprio questo: se esse abbiano davvero natura amministrativa, ovvero possano e debbano essere considerate “pena”. Le domande poste al Governo Italiano sembrano convergere verso una decisione che, a differenza di quanto accaduto in passato, potrebbe riconoscere carattere punitivo alle misure di prevenzione, con conseguente loro assoggettamento a tutte le regole della “materia penale”, sostanziale e processuale.

Fino ad oggi, il riconoscimento di un carattere non penale e la affermazione di finalità preventive hanno fatto passare in secondo piano l’enorme grado di afflittività che contraddistingue le misure di prevenzione.

I dubbi espressi nelle ordinanze interlocutorie, tuttavia, fanno sperare che la Corte europea non si accontenti più, come in passato, della “lettura” dello strumento di prevenzione elaborata dalla giurisprudenza nazionale, ma intenda invece studiarne e valorizzarne la sostanza e gli effetti, per denunciarne il versante più marcatamente punitivo, denunciando queste misure nella loro reale dimensione di pene senza condanna.