PHOTO
GIUSEPPE PIGNATONE PRESIDENTE DEL TRIBUNALE DEL VATICANO
Dopo l’ex magistrato Gioacchino Natoli, spunta un altro nome illustre della Procura di Palermo di inizio anni Novanta, definita “nido di vipere” da Paolo Borsellino. Parliamo dell’ex procuratore di Roma, e attuale presidente del Tribunale vaticano, Giuseppe Pignatone, ora indagato dai pm di Caltanissetta per un presunto “favoreggiamento dei boss”. Ieri è stato interrogato dal pool coordinato dal procuratore Salvatore De Luca, si è dichiarato innocente ma si è legittimamente avvalso della facoltà di non rispondere.
L’indagine è relativa al fascicolo aperto dalla Procura nissena riguardante l’insabbiamento di un’indagine scaturita dalla nota proveniente dai pm di Massa Carrara secondo la quale i mafiosi Salvatore e Antonino Buscemi sarebbero stati in affari con l’allora colosso Ferruzzi-Gardini. Indagine che sarebbe dovuta confluire nel procedimento “Mafia-appalti”, dossier, quest’ultimo, redatto dagli ex ufficiali del Ros Mario Mori e Giuseppe De Donno sotto la supervisione di Giovanni Falcone. Nel medesimo dossier, depositato dai due uomini dell’Arma a febbraio del 1991, già si delineava, con tanto di nomi e dati, la cointeressenza tra i fratelli Buscemi e il colosso ravennate.
La nota proveniente da Massa Carrara sarebbe stata un’ottima integrazione per le 900 pagine di informativa degli ex Ros. Paolo Borsellino non solo considerava quel dossier importante, ma lo collegava direttamente alla strage di Capaci. Tutte le sentenze riguardanti la strage di via D’Amelio hanno individuato l’indagine “Mafia-appalti” come causa preventiva che fece scattare un’accelerazione. Anche se, in barba alle risultanze processuali, le “lobby” di una certa antimafia riscrivono la Storia attraverso una diversa, fuorviante e perenne narrazione. Infatti, il punto non è individuare “Mafia-appalti” come causa: quello è un dato già accertato dai giudici. Piuttosto, si tratta di scoprire se alcuni infedeli servitori dello Stato (anche togati) abbiano creato problemi.
D’altronde, lo stesso Borsellino aveva già predetto la propria morte per mano della mafia, consapevole che alcuni suoi colleghi e altri esponenti avrebbero permesso che ciò si verificasse. Non solo. C’è un vecchio articolo di Repubblica a firma di Salvo Palazzolo in cui viene riportata la testimonianza del compianto giudice Vincenzo Olivieri. Tre giorni prima dell’attentato, incontrò Borsellino al bar. «Il tono delle parole di Paolo era davvero deciso», dice Oliveri a Repubblica, «disse addirittura “questa volta li fotto”. Ma non gli chiesi a chi si riferiva. Era però euforico».
Oggi, con i nuovi elementi emersi, queste parole sembrano assumere un senso più chiaro. Sicuramente Borsellino non si riferiva ai mafiosi, ma molto probabilmente a dei suoi colleghi. Appena due giorni prima di questo incontro, alla riunione del 14 luglio 1992 in Procura, Borsellino stesso avanzò dei rilievi circa la conduzione del procedimento “Mafia-appalti”, di cui lui non era titolare. Lo stesso Antonio Ingroia testimonierà che Borsellino si rivolse a due magistrati con una battuta: «Voi non me la raccontate giusta».
Ma ritorniamo all’indagine che vede coinvolti gli ex procuratori Natoli e Pignatone, e l’attuale generale della Guardia di Finanza Stefano Screpanti, che è l’unico, finora, ad aver risposto ai pm con documentazione annessa. L’accusa sostiene che Natoli, in particolare, avrebbe aiutato a eludere le indagini sui mafiosi Antonino Buscemi e Francesco Bonura, sull’imprenditore e politico Ernesto Di Fresco (dal dossier dei Ros emerge che si incontrava con Angelo Siino) e sui vertici del Gruppo Ferruzzi, ovvero gli imprenditori Raul Gardini, Lorenzo Panzavolta e Giovanni Bini. Al magistrato, già sostituto a Palermo, viene contestato di aver condotto, nell’ambito del procedimento 3589/1991 aperto a Palermo dopo l’invio delle carte da Massa-Carrara su presunte infiltrazioni mafiose nelle cave toscane, una «indagine apparente». Come? Richiedendo autorizzazioni per intercettazioni telefoniche di brevissima durata e su un numero limitato di utenze, compromettendo così l’efficacia dell’inchiesta.
Inoltre, avrebbe disposto, d’intesa con l’allora capitano della Guardia di Finanza Screpanti, di non trascrivere conversazioni cruciali che rivelavano il coinvolgimento di Di Fresco a favore di Bonura e un possibile «aggiustamento» di un processo pendente relativo a un duplice omicidio. Sempre Natoli avrebbe inoltre chiesto l’archiviazione del procedimento, senza approfondimenti e senza acquisire il materiale, concernente le indagini effettuate dalla Procura di Massa-Carrara. I reati, sempre secondo gli inquirenti di Caltanissetta, sarebbero stati commessi con «l’aggravante di aver agito al fine di favorire l’associazione mafiosa», con riferimento agli interessi della stessa nell’aggiudicazione degli appalti, operazione gestita dal famoso tavolino tra mafia, imprenditori nazionali e politica. Tale «indagine apparente» sarebbe stata eseguita su istigazione dell’allora capo procuratore Pietro Giammanco.
Un dettaglio cruciale emerge dalle audizioni di Natoli: nell’aprile 1992, una seconda nota inviata da Lama, il pm di Massa-Carrara, fu “intercettata” da Paolo Borsellino. Il quale, d’altronde, era colui che assegnava i processi di mafia. La diede a Natoli, come era naturale che fosse? No: la consegnò ai colleghi Guido Lo Forte e Giuseppe Pignatone. Perché? Forse Borsellino non era a conoscenza dell’indagine? Ma non c’era la circolarità di notizie, come ripetono taluni magistrati di punta dell’epoca? Resta il fatto che Lo Forte e Pignatone erano i magistrati titolari del dossier “Mafia-appalti”, che già indicava gli affari dei Buscemi con Ferruzzi-Gardini.
Per inquadrare il clima di quel periodo, ci viene in aiuto una nota dello “Sco” della polizia di Stato del 1996, citata dall’ordinanza di archiviazione (procedimento relativo all’indagine sulla fuoriuscita del dossier) a firma della compianta giudice Gilda Loforti. Si legge testualmente che “nel febbraio del 1991, vi fu un serio allarme nel mondo imprenditoriale siciliano a causa di indiscrezioni che arrivavano da elementi corrotti delle Istituzioni circa un’imminente operazione dei Carabinieri che avevano individuato collegamenti tra lo stesso mondo imprenditoriale (i colossi Gardini, Panzavolta) e Cosa Nostra”.
Ed è proprio a febbraio del 1991 che è stato depositato il dossier “Mafia-appalti”. Gli imprenditori - e in particolare il mafioso Antonino Buscemi -, secondo il dossier depositato dagli ex Ros, erano in rapporti di cointeressenze economiche con Pino Lipari, presso il cui ufficio di via De Gasperi, a Palermo, era stato notato più volte il Siino che, dal canto suo, risultava avere avuto frequenti contatti telefonici con l’ingegner Bini, rappresentante per la Sicilia della Calcestruzzi s.p.a. di Raoul Gardini. Questa società possedeva metà del capitale sociale della s.r.l. FINSAVI, di cui era socio fondatore e azionista anche il predetto Antonino Buscemi, e aveva partecipazioni anche nella CISA di Udine, la quale, secondo le risultanze della indagine del Ros, aveva costituito, per la realizzazione di taluni lavori, delle associazioni temporanee con le imprese dell’affiliato Cataldo Farinella.
Sempre nell’ordinanza della Loforti, viene ricordato che si parla degli stessi Buscemi menzionati nella richiesta di archiviazione di “Mafia-appalti” di luglio 1992. In questa richiesta, riferendosi ad Antonino Buscemi, fratello di Salvatore (considerato capo del mandamento di Passo di Rigano o Boccadifalco), si afferma che non risultava coinvolto in alcuna attività dell’associazione mafiosa sotto indagine, né in altri specifici fatti illeciti. Tuttavia, sempre secondo la giudice, questa valutazione sembra trascurare un’analisi critica di potenziali indizi, come le partecipazioni societarie precedentemente indicate. Queste, infatti, erano correlate alle imprese che i Ros avevano segnalato come coinvolte nel meccanismo illecito di distribuzione degli appalti. Inoltre, non si è considerata l’eventuale rilevanza degli elementi in base ai quali sia Antonino Buscemi che Pino Lipari (anche lui nella richiesta di archiviazione) erano già stati considerati indiziati del reato di associazione mafiosa in un precedente procedimento. La vicenda, tuttora complessa e controversa, potrebbe ora trovare finalmente una soluzione.