L’inchiesta giudiziaria sulla gestione della pandemia di Covid rischia di nascere già morta. E ad instillare il dubbio che sia destinata a naufragare è stato lo stesso procuratore di Bergamo, Antonio Chiappani, che intervistato da Repubblica si è detto consapevole dell’esistenza di «un problema di configurabilità» del reato, contestato, tra gli altri, all’ex presidente del Consiglio Giuseppe Conte, all’ex ministro della Salute Roberto Speranza, al governatore della Lombardia Attilio Fontana e al suo ex assessore al Welfare, Giulio Gallera.

Tutti, assieme ad altre 15 persone, tra le quali numerosi tecnici del Cts, sono destinatari degli avvisi di garanzia per i reati di epidemia colposa aggravata, omicidio colposo plurimo e rifiuto di atti di ufficio. Reati che, stando alle contestazioni, avrebbero provocato oltre 4mila morti evitabili. Il problema ruota tutto attorno all’accusa di epidemia colposa, dalla quale discenderebbe poi l’accusa di omicidio colposo plurimo. Un problema che la Cassazione, a più riprese, ha chiarito: «In tema di delitto di epidemia colposa - recita la sentenza 9133/2017, ripresa dalla più recente 20416/2021 proprio in tema Covid -, non è configurabile la responsabilità a titolo di omissione in quanto l’art. 438 cod. pen., con la locuzione “mediante la diffusione di germi patogeni”, richiede una condotta commissiva a forma vincolata, incompatibile con il disposto dell’art. 40, comma secondo, cod. pen., riferibile esclusivamente alle fattispecie a forma libera». Per cui «in assenza di qualsivoglia accertamento circa l’eventuale connessione tra l’omissione contestata al ricorrente e la seguente diffusione del virus» non è possibile ravvisare «la sussistenza del nesso di causalità tra detta omissione e la diffusione del virus».

Insomma, tutto rischia di evaporare in un nulla di fatto. E lo sa anche Chiappani, che dunque, nella stessa intervista, svela le ragioni che muovono la procura: «Di fronte alle migliaia di morti e alle consulenze che ci dicono che potevano essere evitati, non potevamo chiudere con una richiesta di archiviazione». Doverosa per legge, però, se gli elementi in possesso dell’ufficio di procura indicano quella strafa.

Proprio per tale motivo, dunque, l’indagine di Bergamo appare più come un tentativo di processare la storia (e la politica) che altro. Anche perché l’analisi su ciò che andava fatto - e non è stato fatto - si basa su consapevolezze acquisite a posteriori, dopo due anni terribili durante i quali l’Italia è stata però presa ad esempio per la gestione di un’emergenza imprevedibile. Dal lockdown ai vaccini. Il dubbio dei legali che assistono gli indagati è che si stia tentando, col senno di poi, di censurare una serie di valutazioni che la politica ha preso anche sulla base di ciò che dicevano i tecnici.

Decisioni complicatissime in uno scenario scientifico incerto, tanto incerto da essere ancora oggi oggetto di dibattito. E che si voglia assegnare ad un Tribunale penale il compito di sciogliere nodi complicatissimi, in un contesto non certo sereno, proprio perché epicentro di quel disastro che ora la procura attribuisce alla politica. Un cortocircuito che nasce dalle parole dello stesso procuratore: l’indagine, ha infatti affermato, era doverosa per «soddisfare la sete di verità della popolazione» e non, dunque, per accertare responsabilità giuridiche individuali. E il rischio, sussurra qualche avvocato, è che la stessa logica possa essere seguita dalla Corte.

Insomma, ci sono tutti gli estremi per un legittimo sospetto, questa la voce che circola tra gli addetti ai lavori: che garanzie di terzietà ci sono? E quali sono i compiti della magistratura, soddisfare le aspettative di un territorio o applicare la legge? Ma non solo. L’inchiesta ha una connotazione politica fortissima: il consulente dell’accusa è infatti Andrea Crisanti, oggi parlamentare dem e pochi giorni fa in tv per spiegare i contenuti della sua perizia. E gli indagati sono suoi avversari politici, fanno notare i legali, indignati per quello che appare come un cortocircuito pazzesco. «Questo è l’emblema di tutto ciò che volevamo evitare: la spettacolarizzazione dei processi e la commistione tra politica e attività giudiziaria. È la tempesta perfetta, ciò contro cui noi avvocati protestiamo da anni. Non è possibile risolvere per via giudiziaria le grandi fasi storiche», fa sapere un legale che preferisce rimanere anonimo.

L’altro aspetto della vicenda, dunque, è la critica giudiziaria all’azione politica a fronte di documenti che attestano come tutto il mondo si sia trovato nella stessa identica situazione dell’Italia, compresi i Paesi con un piano pandemico aggiornato, come la Svizzera e l’Inghilterra. A dimostrazione del fatto, secondo un principio eziologico, che non poteva essere la mancanza di qualcosa a rappresentare l’elemento per cui si è sviluppata l’epidemia. D’altronde, come ha evidenziato Ranieri Guerra, ex numero due dell’Oms ed ex direttore generale dell’ufficio di Prevenzione del ministero della Salute, una valutazione di “adeguatezza o meno” della gestione delle prime fasi della pandemia come quella prospettata dovrebbe in ogni caso tenere conto di tutti gli elementi all’epoca disponibili ed analizzarli attraverso un ragionamento ex ante e non certamente ex post. Insomma, nessuno poteva prevedere un evento di questa portata straordinaria. E suggerire ai familiari delle vittime l’idea che si poteva fare qualcosa e non è stato fatto rischia di diventare un boomerang.

A ciò si aggiungono le fughe in avanti sulla stampa. Numerose sin dall’inizio e coronate dalla comunicazione degli avvisi di garanzia a mezzo stampa, fuga di notizie sulla quale ora è la stessa procura di Bergamo - quella dalla quale qualcuno ha fatto uscire l’avviso di conclusione indagini - a indagare. Fughe che sono continuate anche dopo le comunicazioni ufficiali: sui giornali sono finite decine di chat irrilevanti, con il solo scopo di «indignare la gente - conclude il legale -. Una pessima pagina dell’informazione, della giustizia e della politica».