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È giunto il momento ormai per Beccaria di scendere più nel particolare, cercando di esaminare alcune figure particolari di comportamenti illeciti. Il primo è il caso dell’offesa recata all’onore, che oggi diremmo piuttosto reputazione, occasionando insomma quelli che potremmo chiamare, con terminologia moderna, i reati di opinione. Da tempo è noto che esiste una forte tendenza a depenalizzare i reati d’opinione in Italia, che tuttavia si è scontrata – ed è risultata fino ad oggi perdente – con l’opposta teoria che invece vuole a tutti i costi mantenerne la rilevanza penale: e da molti forse a ragione si pensa che dietro quest’ultima opinione si possa celare un qualche interesse personale sensibile ai risarcimenti a volte cospicui che ne possano derivare.
Beccaria non lascia di far trapelare in modo chiaro il suo fastidio per questo genere di illecito penale ed in ciò si può forse scorgere una netta influenza della lezione di Rousseau, il cui problema capitale filosoficamente sintetizzato, come è noto, era “far riapparire l’essere al di là dell’apparire”. Beccaria denuncia ironicamente come purtroppo molti mettano questo onore – inteso come “i suffragi degli uomini” quale condizione stessa della propria esistenza.
Le violazioni dell’onore danno origine ai duelli, reato fra i più odiosi, in quanto originati dalla “anarchia delle leggi” e abituali fra gli aristocratici – e non fra la plebe – in quanto son proprio costoro a guardarsi con “sospetto e gelosia”, i quali appunto esigono che l’offesa all’onore sia lavata col sangue del duello. E’ appena il caso di rilevare la per nulla scontata franchezza del giurista milanese nel denunciare i vizi della classe alla quale egli medesimo apparteneva, oltre che la fermezza nel vedere come reato un comportamento che a metà del settecento era giudicato lecito e perfino doveroso, quale il duello. Beccaria precorreva i tempi: e di molto.
Dal punto di vista della filosofia della pena, Beccaria si colloca nella prospettiva che oggi chiameremmo della prevenzione speciale o anche generale, in quanto ritiene che lo scopo della stessa sia duplice: da un lato, scoraggiare il colpevole dalla commissione di altri reati; dall’altro, scoraggiare in genere la collettività dal commetterne.
Da ciò discende che la pena deve essere “durevole” negli animi degli uomini e la meno “tormentosa” per il corpo. Kant avrebbe tuonato contro questa impostazione filosofica, perché contraria all’imperativo etico categorico, sfociando nel rischio che il fine preventivo possa fare del singolo colpevole un mezzo per impressionare gli altri soggetti della collettività, e non già – come invece predicava il filosofo di Konigsberg – un fine in se. Ma per Beccaria – e per noi – va bene così.
Passando poi all’esame della testimonianza, transitando cioè dal codice penale a quello di procedura penale, Beccaria afferma un principio giuridico basilare, ma spesso dimenticato anche oggi, con enormi danni alla amministrazione della giustizia e a coloro che ne ricevono effetti negativi spesso irreparabili.
Egli afferma infatti che se un testimone afferma e uno nega l’accusa, questa deve ritenersi non provata perché le testimonianze opposte si elidono reciprocamente e perché comunque deve prevalere la presunzione di innocenza. Molti sedicenti giuristi di oggi dovrebbero leggere e meditare queste pagine. Ancora.
Esaminando le prove e la logica relativa alla loro valutazione, Beccaria dovrebbe vedere fra i propri attenti lettori anche molti giuristi della nostra epoca. Citiamo solo un esempio. Sostiene Beccaria che se le prove di un certo fatto si sostengono fra di loro, allora quanto più numerose sono codeste prove, tanto minore è la probabilità del fatto, perché le censure che si posson muovere alle precedenti colpiscono anche le seguenti; e ancora che se le prove di un certo fatto dipendono da una sola, il numero delle prove non aumenta la probabilità del fatto, perché il loro valore si risolve in quello della sola prova da cui dipendono.
Insomma, un esempio perfetto di logica giudiziaria che sarebbe bene far studiare agli studenti di Giurisprudenza, troppo presi purtroppo dall’informatica – vale a dire dal mezzo di comunicazione – per preoccuparsi del diritto e della giustizia – vale a dire dei contenuti di quel mezzo, che poi son la sola cosa che davvero conti. Terribili poi le critiche da Beccaria riservate alla delazione, vale a dire alle accuse segrete e immuni da responsabilità. Esse infatti aprono la strada alla calunnia dalla quale è molto difficile difendersi proprio in quanto segreta. Ne viene che nessuna accusa – neppure la più grave – giustifica la delazione e che perciò l’accusa dovrà sempre essere pubblica, mai segreta, indipendentemente dalla forma dello Stato e della Costituzione.
Infine al calunniatore dovrà irrogarsi la medesima pena che toccherebbe a colui che fu ingiustamente accusato. Come si vede, una bella e concreta lezione di civiltà giuridica, che oggi purtroppo per molti aspetti pare dimenticata.