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IN CELLA TRE ANNI. IMPRENDITORE CALABRESE CHIEDE ALLO STATO UN RISARCIMENTO DI 516 MILA EURO
Ha trascorso 3 anni e mezzo in carcere, mentre le sue aziende venivano mandate in malora dagli amministratori giudiziari. Dopo che la sua assoluzione è divenuta definitiva Vincenzo Galimi, presenta il conto allo Stato. Un conto salato. L’imprenditore di Palmi, in provincia di Reggio Calabria, ha infatti chiesto un risarcimento di 516mila euro per l’ingiusta detenzione. In più lo Stato italiano dovrà farsi carico della sue aziende di movimento terra che non ha saputo amministrare e che prima del suo arresto davano lavoro a 60 persone. Durante l’amministrazione giudiziaria, infatti, una società delle due è fallita, l’altra versa in grandi difficoltà, sommersa da una montagna di debiti.
I fratelli Galimi erano finiti nella maxi operazione della Distrettuale antimafia denominata “Cosa mia”, nella quale erano state arrestate 52 persone, accusate di essere affiliate, o comunque vicine, alle cosca Gallico di Palmi e a quelle di Barritteri di Seminara. Tra le accuse mosse alla potente cosca di Palmi, oltre all’associazione mafiosa, anche quella di avere infiltrato i lavori di ammodernamento della Salerno- Reggio Calabria. L’IMPRENDITORE CHIEDE 516MILA EURO PER INGIUSTA DETENZIONE
Ha trascorso 3 anni e mezzo in carcere, mentre le sue aziende venivano mandate in malora dagli amministratori giudiziari. Dopo che la sua assoluzione è divenuta definitiva Vincenzo Galimi presenta il conto allo Stato. Un conto salato.
Attraverso il suo legale, l’avvocato Domenico Putrino, l’imprenditore di Palmi, in provincia di Reggio Calabria, ha chiesto un risarcimento di 516mila euro per l’ingiusta detenzione. In più lo Stato italiano dovrà farsi carico della sue aziende di movimento terra che non ha saputo asmministrare e che prima del suo arresto davano lavoro a 60 persone. Durante l’amministrazione giudiziaria, infatti, una società delle due è fallita, l’altra versa in grandi difficoltà, sommersa da una montagna di debiti. La stessa somma è stata richiesta anche dal fratello di Galimi, Pasquale, coinvolto nell’inchiesta per una presunta questione di armi non provata durante il dibattimento.
L’INCHIESTA
I fratelli Galimi erano finiti nella maxi operazione della Distrettuale antimafia di Reggio Calabria denominata “Cosa mia”, nella quale erano state arrestate 52 persone, accusate di essere affiliate, o comunque vicine, alle cosca Gallico di Palmi e a quelle di Barritteri di Seminara.
Tra le accuse mosse alla potente cosca di Palmi, oltre all’associazione mafiosa, anche quella di avere infiltrato i lavori di ammodernamento della Salerno- Reggio Calabria nel cosiddetto V macrolotto, quello compreso tra lo svincolo di Gioia Tauro e di Scilla. Secondo la Dda, che ha coordinato le indagini della Squadra mobile, la ditta Galimi era riconducibile ai Gallico e grazie alle due aziende, il clan sarebbe riuscito a aggiudicarsi alcuni appalti peri lavori sull’autostrada. Vincenzo Galimi, per l’accusa titolare di fatto della ditta “Galimi” intestata al figlio Giuseppe, secondo i pm avrebbe messo a disposizione dei Gallico la sua azienda, consentendo l’infiltrazione sia nei lavori di ristrutturazione dell’A3, sia in quelli di manutenzione e somma urgenza del Comune di Palmi.
IL PROCESSO
Alla fine del processo di primo grado, la Procura ha chiesto una condanna a 16 anni di carcere. Ma a prevalere è stata la linea della difesa: Vincenzo Galimi aveva pieno titolo a avere rapporti con le ditte e le amministrazioni pubbliche, non solo perché fosse dipendente della stessa, ma anche perché era stato nominato procuratore speciale dell’azienda Galimi con vari poteri. La società, prima del sequestro del 2010, assumeva decine di operai e aveva appalti per svariate centinaia di migliaia di euro, oltre a mezzi tecnici per milioni di euro.
Il giorno della sentenza di assoluzione dall’accusa di associazione a delinquere di stampo mafioso e intestazione fittizia di beni, la Corte d’assise di Palmi ha disposto la restituzione dell’intero patrimonio aziendale. Che a quel punto, però, era ridotto a poca cosa.
Nel corso del processo di primo grado la Procura aveva chiamato a deporre l’imprenditore e testimone di giustizia Gaetano Saffioti, che negli anni ’ 90 si ribellò alle imposizioni del clan Gallico denunciando estorsioni e facendo nascere il processo denominato “Tallone d’Achille”. Mentre per altri imprenditori attivi nel movimento terra Saffioti fu in grado di collegarli alla cosca Gallico, per Galimi disse: «Credo che siano imprenditori che si sono adeguati al sistema, ma non so se siano collegati alla ‘ ndrangheta».
Dopo l’assoluzione in primo grado è arrivata anche quella in secondo grado, non appellata dalla procura generale. Una decisione che ha portato le misure di prevenzione della Corte d’appello di Reggio Calabria alla revoca della misura di 3 anni imposta dal Tribunale dopo la sentenza di primo grado. E subito dopo la maxi richiesta di risarcimento per l’ingiusta detenzione, mentre per quella relativa alle aziende è ancora in fase di quantificazione da parte dei periti nominati dalla difesa.
Francesco Altomonte
SECONDO L’ACCUSA AVEVA MESSO A DISPOSIZIONE DEI CLAN CALABRESI LE SUE DITTE PER CONSENTIRE L’INFILTRAZIONE NEGLI APPALTI DELLA SALERNO- REGGIO