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Da un lato il Movimento 5 Stelle, dall’altro Italia viva, nel mezzo il Partito democratico. Sull’Ilva il Conte bis si è trasformato in un coro polifonico in cui però ognuno canta da solista. Sullo sfondo, a recitare un ruolo secondario, ci sono i sindacati e Confindustria, che a una sola voce chiedono al governo di ripristinare l'immunità penale per Arcelor Mittal per garantire l’occupazione. Perché in mezzo al braccio di ferro del tutti contro tutti c’è il destino di 11 mila famiglie tarantine, che da domani potrebbero trovarsi in mezzo a una strada.
Il dossier Ilva adesso è nelle mani del presidente del Consiglio, che oggi si confronterà al tavolo con Lucia Morselli, amministratore delegato di Arcelor Mittal. Il premier sembra deciso a tenere la barra dritta: «Saremo inflessibili», dice Conte, rimproverando al colosso franco- indiano di aver cambiato strategia «industriale adducendo a giustificazione lo scudo o non scudo penale, che peraltro non è previsto contrattualmente». Perché sull’ex Ilva «non stiamo parlando di un’acquisizione fatta tramite una vicenda di mercato», insiste il numero uno di Palazzo Chigi.
«C’è stata una procedura di evidenza pubblica, c’è stata un’aggiudicazione a esito di una gara ed è stato stipulato un contratto. Ci sono impegni contrattuali da rispettare e su questo saremo inflessibili». La linea Conte e quella Di Maio per una volta coincidono: chi ha sottoscritto un contratto deve onorarlo. E pazienza se il governo ha avuto un atteggiamento ondivago sull’argomento, inserendo e facendo scomparire più volte lo scudo penale nel giro di pochi mesi. L’esecutivo adesso ha preso una decisione. O almeno l’ha presa la parte di maggioranza che fa riferimento al Movimento 5 Stelle. Perché gli alleati di Conte non la pensano esattamente come lui.
«Credo che si possa agevolmente recuperare la questione dello scudo penale anche con un emendamento al Decreto fiscale che sta per arrivare in Parlamento ( lo ha già preparato la collega Lella Paita e lo firmeranno molti di noi)», annuncia nella sua enws Matteo Renzi, con una fuga in avanti per «togliere alibi» a Mittal, assicura. Ma la presa di posizione infastidisce l’azionista di maggioranza del governo, a cui non sfugge la sponda offerta a Italia viva dall’ex ministro dell’Interno. «Se vogliono fare un decreto per salvare l’ Ilva e per la tutela dei posti di lavoro i voti della Lega ci sono», dice Matteo Salvini, cogliendo la palla al balzo per creare zizzania tra alleati e dare una spallata a un governo sempre meno stabile.
Come se non bastasse, secondo alcune indiscrezioni, il leader di Italia viva starebbe lavorando in silenzio persino all’individuazione di una nuova cordata, che coinvolgerebbe Jindal e Cdp per l’acquisto delle acciaierie. «Io non sono al lavoro per una cordata. Io faccio il senatore non il costruttore di cordate», smentisce il diretto interessato. «Jindal ha un investimento in Italia, è ovvio che viene in Italia. Ha fatto un bell’investimento a Piombino, spero vada avanti ed è chiaro che merita attenzione, anche del ministro Patuanelli. Non credo ci sia in programma un incontro».
E in mezzo a questo gioco delle parti il Partito democratico, dopo mille incertezze sembra accodarsi alla linea dell’ex segretario fuoriuscito. «Chi inquina paga ma chi deve attuare un piano ambientale non può rispondere penalmente su responsabilità pregresse e non sue. Proporremo iniziative parlamentari in questo senso», dice Nicola Zingaretti, favorevole alla presentazione di emendamenti che reintroducano lo scudo penale.
E mentre i partiti si dividono, il colosso dell’acciaio ha consegnato al Tribunale di Milano la richiesta di accertamento delle ragioni del recesso. «Una citazione lunga 37 pagine, con 37 allegati e firmata da 7 avvocati. Dimostra che preparavano l’addio da settimane, forse da mesi», commenta il ministro per lo Sviluppo economico Stefano Patunaelli, che accusa Arcelor Mittal di aver «sbagliato piano industriale» con «errori macroscopici dei vertici». Il sospetto è che i vertici della multinazionale avessero già deciso di abbandonare Taranto, indipendentemente dallo scudo penale, e il Codacons si spinge persino oltre, annunciando una denuncia nei confronti dell’azienda per tentata estorsione nei confronti del governo. «Non si può subordinare la chiusura, l’apertura di un’impresa o la rescissione di un contratto alla modifica di una legge dello Stato o per impedire un provvedimento legittimamente adottato da un magistrato penale», fa sapere l’associazione dei consumatori, «perché tale minaccia può configurare un tentativo di estorsione e una violenza ad un organo collegiale».
Ma quelli emersi fino ad ora sono solo alcuni degli aspetti del cortocircuito politico di questi giorni. In ballo c’è molto di più di una fabbrica: c’è l’assenza di un’idea di sviluppo per il Mezzogiorno, desertificato dall’emigrazione giovanile ( come certificato dallo Svimez) e la mancanza di politiche industriali per questo Paese. Un cocktail letale, figlio di egoismi e tattiche partitiche di brevissimo respiro, che rischia di condannare il Sud all’abbandono perenne, preda delle scorribande elettorali del primo incendiario di passaggio. Intano, 11 mila famiglie aspettano.