PHOTO
No al rimpatrio dei rifugiati nei loro Paesi d’origine se rischiano la vita. È quanto ha stabilito la Corte di giustizia europea, secondo cui la revoca e il rifiuto del riconoscimento dello status di rifugiato non consentono di privare una persona, la quale abbia fondato timore di essere perseguitata nel proprio paese di origine, né dello status di rifugiato né dei diritti che la Convenzione di Ginevra ricollega a tale status. Un assist per il ministro dell’Interno Matteo Salvini, che subito rilancia la questione sui social, invitando i cittadini a sostenere la Lega alle europee.
La Ue, scrive Salvini su Facebook, dice «no all’espulsione del rifugiato anche se commette reati. Ecco perché è importante cambiare questa Europa, con il voto alla Lega del 26 maggio», afferma. E la sua linea, promette, non cambia. «Io non cambio idea e non cambio la legge: i “richiedenti asilo” che violentano, rubano e spacciano, tornano tutti a casa loro. E nel decreto Sicurezza bis norme ancora più severe contro scafisti e trafficanti».
A scagliarsi contro Salvini è subito il Pd, con il commento del senatore Edoardo Patriarca. «La sentenza della Corte Ue sui migranti e sui rifugiati è nei fatti un piccone alla politica di Salvini in fatto di migrazioni. Ora il ministro dell’Interno non può far finta di nulla, e soprattutto deve dare indicazioni agli uffici del ministero affinché quanto stabilito dalla Corte sia applicato - afferma - Salvini non continui a gridare al complotto. Le norme europee vanno applicate, perché la nostra politica europea non può essere fatta con gli slogan di un ministro dell’Interno che considera i migranti solo in modo negativo».
La sentenza. La vicenda riguarda i ricorsi presentati da un cittadino ivoriano, un cittadino congolese e una persona di origini cecene, in Belgio e nella Repubblica Ceca, contro la revoca o il diniego del riconoscimento dello status, sulla base di condanne rimediate per reati ritenuti particolarmente gravi per le comunità ospitanti. Gli interessati hanno contestato le decisioni davanti al Consiglio per il contenzioso sugli stranieri del Belgio e alla Corte amministrativa suprema della Repubblica Ceca, sollevando dubbi sulla conformità delle decisioni alla Convenzione di Ginevra. I giudici hanno rilevato che, benché la Convenzione di Ginevra consenta, per i suddetti motivi, l’espulsione e il respingimento di un cittadino straniero o di un apolide, la perdita dello status di rifugiato non è comunque prevista. E così hanno chiesto alla Corte di valutare tali possibilità alla luce delle norme della Carta dei diritti fondamentali dell’Ue.
Secondo i giudici di Bruxelles, fintanto che il cittadino di un paese extra- Ue o un apolide presenti un fondato timore di essere perseguitato nel proprio paese di origine o di residenza, questa persona dev’essere qualificata come rifugiato, indipendentemente dal riconoscimento formale di tale status. Una condizione che prevede tutta una serie di diritti e benefici equivalenti a quelli contenuti nella Convenzione di Ginevra, ma anche tutele giuridiche maggiori, tali da impedire, nei casi di revoca o di diniego, il respingimento verso un paese considerato pericoloso per la vita di tali persone.
La Carta vieta, infatti, in termini categorici, la tortura nonché le pene e i trattamenti inumani o degradanti, a prescindere dal comportamento dell’interessato, e l’allontanamento verso uno Stato dove esista un rischio serio di tal genere non può, dunque, essere considerato come opzione. Di conseguenza, nonostante la revoca o il diniego dello status implichi la perdita di tutta una serie di diritti e benefici, la stessa continua a godere di un certo numero di diritti previsti dalla Convenzione di Ginevra.
Secondo la Convenzione, infatti, il termine rifugiato è applicabile a chiunque «nel giustificato timore d’essere perseguitato per la sua razza, la sua religione, la sua cittadinanza, la sua appartenenza a un determinato gruppo sociale o le sue opinioni politiche, si trova fuori dallo Stato di cui possiede la cittadinanza e non può o, per tale timore, non vuole domandare la protezione di detto Stato; oppure a chiunque, essendo apolide e trovandosi fuori del suo Stato di domicilio in seguito a tali avvenimenti, non può o, per il timore sopra indicato, non vuole ritornarvi».
La qualità di «rifugiato», dunque, non dipende dalla concessione dello «status» e nessuno Stato membro può mettere a rischio la vita di qualcuno spedendolo in un Paese in cui si possa correre il rischio di andare incontro «a un rischio reale di subire trattamenti proibiti» dalla Carta. E i principi sanciti in tale convenzione, scrivono i giudici, «costituiscono la pietra angolare della disciplina giuridica internazionale relativa alla protezione dei rifugiati».