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Mimmo Lucano in compagnia dell'avvocato Andrea Daqua davanti alla Corte di Cassazione
La Seconda sezione penale della Cassazione ha dichiarato inammissibile il ricorso del procuratore generale in relazione all’assoluzione di Domenico Lucano e di altri imputati per alcuni reati di truffa in danno dello Stato e ha rigettato lo stesso ricorso inerente alle assoluzioni per tutte le altre truffe e ai reati di falso (questi ultimi ascritti al solo Lucano). Ha inoltre rigettato il ricorso proposto da Domenico Lucano in relazione alla condanna per un reato di falso a un anno e sei mesi, che diventa dunque definitiva. Si chiude così il processo Xenia, che ha devastato un modello d’accoglienza vincente. Domenico Lucano, sindaco di Riace ed eurodeputato, era stato assolto in appello da tutti i reati, tranne che per un’ipotesi di truffa. La sentenza di secondo grado è stata impugnata da entrambe le parti, con la procura generale della Corte di Appello di Reggio Calabria che aveva chiesto di rivalutare le assoluzioni per truffa aggravata ai danni dello Stato, un abuso d’ufficio (reato ormai abolito) e un falso relativo ad 56 delibere.
A firmare la richiesta erano stati l’avvocato generale Adriana Costabile e i sostituti procuratori generali Adriana Fimiani e Antonio Giuttari, che con sole 33 pagine avevano cercato di smontare la corposa motivazione d’appello, che aveva di fatto demolito ogni accusa, capovolgendo la narrazione che aveva fatto a pezzi il modello d’accoglienza di “Mimmo il curdo”. Il Procuratore generale presso la Corte di Cassazione, prendendo la parola in aula, ha sostenuto che il ricorso presentato dalla pubblica accusa deve essere accolto almeno in parte, nella parte che riguarda l'utilizzabilità delle intercettazioni. Secondo la pubblica accusa, infatti, non trattandosi di una trasmigrazione di intercettazioni da un procedimento all'altro, la riqualificazione dell’accusa non comprometterebbe l’utilizzabilità delle stesse captazioni. Una questione fortemente contestata dalle difese, che hanno fatto notare come sebbene inizialmente fossero state autorizzate per il reato di truffa aggravata, alla chiusura delle indagini quello contestato era il reato di truffa semplice, che non prevedeva la possibilità di disporre intercettazioni. E anche al momento del rinvio a giudizio le imputazioni riguardavano l’articolo 640 secondo comma. La Procura generale, su questo punto, ha però ritenuto necessario chiedere l'annullamento con rinvio della sentenza d'appello per un nuovo esame.
Per quanto concerne le ipotesi di falso contestate in aggiunta a quella per la quale il sindaco è stato invece condannato, la procura generale ha chiesto il rigetto del ricorso. Così come per il ricorso presentato dalla difesa di Lucano, che aveva chiesto l’annullamento della condanna ad un anno e un mese.
Il ricorso della procura generale
La procura generale contestava, soprattutto, la ritenuta inutilizzabilità delle intercettazioni disposte con riferimento al reato di cui truffa aggravata, sin da subito contestata da decine di giuristi: per la Corte d’Appello, al momento genetico dell’intercettazione, non sarebbero stati presenti «i presupposti di legge per disporre il mezzo di ricerca della prova, sulla scorta di una riqualificazione del reato operata solo nel secondo grado di giudizio». I giudici d’appello, però, scrivono i due magistrati, non avrebbero «considerato che proprio nel caso in esame la captazione correttamente autorizzata, per come ancor meglio si esporrà più oltre, è stata disposta sul presupposto della esistenza di gravi indizi del reato di cui all’art. 640 bis cp e, pertanto, rimane del tutto insensibile al fisiologico sviluppo del procedimento». Una questione «cruciale» per i firmatari dell’impugnazione, dal momento che «le gravi irregolarità sulla rendicontazione, attinenti al complesso meccanismo della erogazione di contributi pubblici emerso nel corso delle indagini e su cui è stata resa ampia testimonianza in dibattimento trovano spiegazione logica circa le intenzioni truffaldine solo in esito alla valutazione del compendio probatorio derivante dai dialoghi intercettati, dai quali in modo inequivoco emerge il ruolo centrale nella vicenda del Lucano».
Per i due magistrati reggini, le intercettazioni, proverebbero l’intento di «far confluire anche acquisti e spese non pertinenti alle finalità istituzionali previste dalla legge tutti nella causale relativa al progetto di accoglienza e integrazione in favore dei rifugiati». E i giudici d’appello, scrivono, si sarebbero limitati a «uno sterile e fuorviante richiamo di pronunce della Suprema Corte di Cassazione senza approfondirne il contenuto» in merito alle intercettazioni. L’argomento, però, fa a botte con un fatto non di poco conto: i giudici d’appello avevano sì contestato l’utilizzabilità di quel materiale, ma erano andati oltre, analizzando in maniera certosina l’assenza di riscontri all’ipotesi di reato. E chiarendo, in maniera specifica, per quali ragioni l’assoluzione fosse l’unica cosa giusta.
Il Tribunale di Locri, che lo aveva condannato a 13 anni e 2 mesi, scrivevano i giudici, «per alcune ipotesi di reato, ha dato al fatto una diversa qualificazione giuridica, il che pone il problema» dell’utilizzabilità delle intercettazioni «per reati non autonomamente intercettabili». Considerarle legittime significherebbe «da un lato svuotare di contenuto la funzione di garanzia propria del provvedimento autorizzativo, dall’altro, trasfigurare il decreto in una sorta di “autorizzazione in bianco”, in aperto contrasto con la riserva di cui all’articolo 15 della Costituzione”». Ma anche a fingere che non ci sia stata forzatura nell’utilizzo delle intercettazioni, ciò che manca sono le prove. Che erano necessarie per dimostrare «l’effettivo impiego, e soprattutto l’impiego illecito, delle somme prelevate dai vari rappresentanti legali, prova il cui onere incombeva sul pm».
Le argomentazioni delle parti
L'Avvocatura dello Stato, per conto del ministero dell'Interno, ha aderito alla posizione del Pg di Reggio Calabria, in particolare sulla questione dell'errata qualificazione del reato di truffa aggravata (respinta invece dal Pg di Cassazione). Dal lato della difesa, l'avvocato Andrea Daqua, difensore di Lucano, ha definito generico il ricorso della procura generale, essendosi limitato ad una critica difettiva, ha sottolineato, che non permette di effettuare una resistenza analitica. Per quanto riguarda l'utilizzabilità delle intercettazioni, è onere delle parti indicare quali sono quelle utilizzabili, onere indicato dalla stessa Cassazione, compreso quello di indicare quale incidenza avrebbero avuto quelle captazioni rispetto alla decisione. Ma nulla di tutto questo, ha evidenziato, nel ricorso della procura generale.
L'avvocato Salvatore Zurzolo, difensore di Cosimina Ierinò, ha posto un interrogativo critico: «Com'è possibile che sia stata autorizzata un'intercettazione per il 640-bis se alla chiusura delle indagini era stato contestato il 640 secondo comma?». Secondo la difesa, ciò dimostrerebbe un'incoerenza nell'impianto accusatorio e smonterebbe la tesi dell’utilizzabilità delle captazioni nel processo. Un concetto ribadito anche dal'avvocata Maria Tripodi, difensore di Salvatore Romeo, che ha sottolineato come la Corte d'Appello ha comunque fatto una prova di resistenza delle accuse, a fronte delle intercettazioni pure inutilizzabili, dalla quale è comunque emersa l'assenza di prove a sostegno dell'accusa. Inoltre, la natura dei rimborsi ricevuti dalle associazioni non rientrerebbe nella definizione di "sovvenzioni" contestate.
In aula ha preso la parola anche Giampaolo Catanzariti, difensore di Luca Ammendolia, che ha invece contestato un errore giuridico nella qualificazione del reato sin dall'origine, aggiungendo che il ricorso del Pg non terrebbe conto in modo adeguato della sentenza d'appello.