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Sotto il post con il video dell’intervista a Elena Cecchettin, sorella di Giulia, uccisa e abbandonata in un burrone, c’è una sfilza di uomini che le dicono come dovrebbe parlare, come dovrebbe soffrire, che dovrebbe stare a casa a piangere, altrimenti il suo dolore non vale, non è credibile. Che la maglietta che indossa non è adeguata, che l'eyeliner è fuori luogo, perché la sorella è appena morta. Lei ce l’ha col patriarcato, non solo con l’assassino di sua sorella, che non è la prima, non sarà l’ultima. E giù insulti, per quell’anello al naso e i post sui social, subito depredati per mettere su una biografia totalizzante, che le valgono l’accusa di satanismo e dell’imperdonabile (presunta) volontà di candidarsi con la sinistra, Laura Boldrini ed Elly Schlein in prima fila. Ma il patriarcato, la cultura maschilista, la cultura della sopraffazione non esistono, ribadiscono loro, che di sentirsi chiamati in causa proprio non ne vogliono sapere. L’omicidio di Giulia Cecchettin ha colpito tutto il Paese e riaperto un dibattito che in Italia ha luogo ogni tre giorni, statistiche alla mano. Senza alcun esito, se non quello di inneggiare alla gogna, alla castrazione chimica, alle torture fisiche e - ça va sans dire - all’esenzione dal processo, che tanto non serve. Un dibattito impregnato, per buona parte (e in buona fede, per una certa percentuale), dalla stessa cultura paternalistica che lo genera: le donne non si toccano nemmeno con un fiore. Perché diverse, fragili, da proteggere. Ovvero, ancora una volta, subalterne. E quando gli uomini sono violenti, se non sono dei mostri (dunque un’eccezione, la colpa è delle madri, che non li hanno saputi educare. Perché questo è il loro compito. «Io non ho mai incontrato soggetti gravemente maltrattati e gravemente disturbati che avessero però delle mamme normali», dice la deputata leghista Simonetta Matone. Una sola frase da prendere come esempio, senza bisogno di saccheggiare il web di tutte le bestialità scritte nelle ultime ore.
Le soluzioni sono tutte uguali: pene più dure. Un antidoto a costo zero, buono per la propaganda ma che non porta alcun risultato. Se non bastassero l’evidenza e le dichiarazioni pubbliche della vecchia versione di Carlo Nordio, attuale ministro della Giustizia che i reati voleva ridurli ma li ha aumentati, si potrebbe fare riferimento agli studi. Uno dei più accreditati, in Italia, è “Omicidi e uccisioni violente nel mondo” e porta la firma di Adolfo Ceretti e Roberto Cornelli, professori di criminologia dell’università Bicocca di Milano, che incrociando varie ricerche sui crimini violenti tra il 1950 e il 2010 hanno scoperto che la “tolleranza zero” non riduce i reati violenti. Anzi, gli omicidi sono addirittura più diffusi nei Paesi in cui si fa largo uso della pena capitale e di ergastoli. Tant’è che in 11 Paesi dove è stata abolita la pena di morte - spesso invocata in casi come quello di Giulia - gli omicidi sono diminuiti, come certificato dallo studio “Cosa succede al tasso di omicidi quando la pena di morte viene abolita? Uno sguardo a 11 nazioni che potrebbe sorprendere”, svolto dall’Abdorrahman Boroumand Center. Non solo. Il professor Ben Crewe e la dottoressa Susie Hulley, dell'Università di Cambridge, e la dottoressa Serena Wright, della Royal Holloway, Università di Londra, per valutare l’impatto del Prison Reform Trust di Boris Johnson hanno analizzato i dati delle carcerazioni nel Regno Unito, concludendo che non vi è alcuna prova chiara che l’aumento delle pene incida sulla sicurezza, producendo solo sovraffollamento e disagio nelle carceri. Ma alla fine basta anche ragionare su un fatto: il 34 per cento degli uomini che ammazza le donne, dopo, si suicida. A riprova del fatto che il carcere non spaventa affatto.
L’elenco delle prove scientifiche sarebbe lungo. Ma non serve, perché la propaganda è facile, veloce e indolore e non accetta consigli. Mentre per risolvere il problema serve «educazione all’affettività». Un’urgenza rilanciata ieri dall’Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza, Carla Garlatti, in occasione della giornata mondiale dell’infanzia. Perché l’età della violenza si abbassa e i rapporti violenti sono diventati sempre più frequenti anche tra gli adolescenti, mentre i segnali vengono ignorati e troppo spesso non riconosciuti. «È dall’8 marzo 2021, poco dopo il mio insediamento, che ho chiesto l’introduzione nelle scuole di un corso per l’educazione all’affettività, alla parità di genere e al rispetto dell’altro - ha detto ieri incontrando i giornalisti nell’ambito dell’evento “Vincere il silenzio” -. E questo non in base ad una mia idea particolarmente originale, ma perché lo dice la Convenzione di Istanbul, che chiede agli Stati di introdurre questo percorso di formazione nelle scuole, sin dall’infanzia. Non sono mai stata ascoltata. C’è stato anche chi ha avuto dell’ironia pungente per questa mia uscita. Ora, invece, il problema emerge, perché si è visto che inasprire le pene non serve. È giusto punire chi sbaglia, ma bisogna investire nella prevenzione, perché questi fatti non devono accadere. A chi è stato ucciso non serve a nulla che il suo assassino prenda l’ergastolo». Già, la Convenzione di Istanbul, che è stata ratificata dall’Italia nel 2013, ben 10 anni fa, rimanendo quasi lettera morta. All’articolo 14, giusto per citarne uno, il documento invita i Paesi a «includere nei programmi scolastici di ogni ordine e grado dei materiali didattici su temi quali la parità tra i sessi, i ruoli di genere non stereotipati, il reciproco rispetto, la soluzione non violenta dei conflitti nei rapporti interpersonali, la violenza contro le donne basata sul genere e il diritto all'integrità personale, appropriati al livello cognitivo degli allievi». Tutta roba rimasta sulla carta e in alcuni casi anche ostacolata, se si pensa, ad esempio, che in Europa Lega, Fratelli d’Italia e tre deputati di Forza Italia, solo pochi mesi fa, si sono astenuti quando si è trattato di votare la proposta della Commissione di aderire alla Convenzione. E addirittura, le leghiste Alessandra Basso e Susanna Ceccardi hanno votato contro.
È una questione culturale, di visione, dunque. Non solo la violenza in sé, ma anche il suo contrasto. Molte volte, spiega Garlatti, «sono le stesse vittime a non rendersene conto, perché non ci sono lividi. Ma una violenza non sempre ha i lividi. Il controllo del cellulare, il contestare le uscite con gli amici e altro sono prodromiche ad una vera e propria violenza». La soluzione è aumentare l’autoconsapevolezza, ad esempio con «questionari» che consentono di capire se si è vittima. E a corollario, la creazione di centri specifici anche per minorenni, sperando sempre che ci siano i fondi e la voglia di usarli. Ma è necessario anche semplificare le segnalazioni, con linee guida semplici e chiare, una maggiore protezione per chi denuncia e aumentare la consapevolezza di tutta la società. Perché «c’è indifferenza», spesso, nei confronti della violenza, che «è la negazione di tutti i diritti». E non riguarda gli altri, ma tutti. Allora, tocca “educare” non solo i minori, ma anche gli adulti. «Un genitore che tollera sopraffazioni e abusi non veicola un messaggio positivo ai propri figli - conclude Garlatti -. Ma bisogna iniziare da piccoli, nelle scuole primarie».