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Il modello Riace non era un modello criminale. E Domenico Lucano non avrebbe sfruttato in alcun modo l’accoglienza a suo vantaggio. È una sentenza clamorosa quella pronunciata oggi dalla Corte d’Appello di Reggio Calabria, che ha letteralmente asfaltato l’impianto accusatorio della procura di Locri, salvando solo un episodio di falso per l’ex sindaco di Riace, condannato solo ad un anno e mezzo con sospensione della pena. Tutti assolti gli altri 17 imputati, a fronte di una condanna in primo grado pesantissima: il Tribunale di Locri, infatti, aveva addirittura raddoppiato la pesante richiesta dell’accusa, condannando “Mimmo il curdo” a 13 anni e due mesi. Ma cinque anni dopo l’arresto, la distruzione del modello più odiato da Matteo Salvini e lo svuotamento del piccolo paesino calabrese, la Corte reggina ha dato ragione alla difesa, secondo la quale a processo non si contestavano reati, ma una visione politica diventata famosa in tutto il mondo, tanto da disturbare i teorici dell’emergenza perenne. Visione che, per anni, è stata usata anche dall’Italia come motivo di vanto, salvo poi scaricare Lucano in una continua battaglia politica giocata sulla pelle dei più deboli. E di mezzo ci sono andati anche lui e Riace. Nessuna associazione a delinquere, nessun peculato, nessuna truffa: l’indagine Xenia era una bufala. Ma ciò ha comunque distrutto la carriera politica di Lucano, indicato tra i potenti del mondo dalla rivista Fortune e finito anche ai domiciliari, nonché quella di altre 17 persone, costrette per cinque anni a difendersi in Tribunale.
La decisione arriva in un momento difficilissimo nel rapporto tra magistratura e politica: dopo le sentenze che hanno sconfessato più volte il decreto Cutro, rivelandone tutta la fragilità costituzionale, ora arriva la mazzata più pesante per il nemico pubblico numero uno di Salvini. Che aveva premiato, chiamandolo al Viminale, il prefetto Michele Di Bari, colui che, con le sue ispezioni, aveva avviato la macchina che poi portò alla distruzione del sistema di accoglienza diffusa creato da Lucano. La procura generale aveva provato a chiedere una condanna a 10 anni e cinque mesi, salvo poi, oggi, rinunciare alle repliche. Un segnale che non era sfuggito alle difese, che hanno smontato il teorema su un duplice piano: quello politico e quello tecnico, in particolare dimostrando come l’intercettazione chiave utilizzata per motivare la sentenza, in realtà, non sia mai esistita. Ad attendere la sentenza, pronunciata dopo circa sette ore di camera di consiglio, un centinaio di sostenitori dell’ex sindaco, che hanno atteso la decisione in piazza Castello a Reggio Calabria. Lucano, invece, ha aspettato la pronuncia a Riace, circondato da amici e migranti. «Provo un senso di riscatto immenso - spiega l’ex sindaco al Dubbio -, per me e per chi ha condiviso con me tutta questa sofferenza. Ho agito solo per aiutare gli altri ed è per questo che ho sempre detto che avrei rifatto tutto. L’accoglienza non può essere considerata una storia criminale, dovrebbe essere una storia profetica, come aveva detto monsignor Bregantini». La sentenza, commenta Andrea Daqua, difensore di Lucano assieme a Giuliano Pisapia, dimostra che «il castello accusatorio non aveva alcuna base su cui poggiarsi. Non ho mai avuto dubbi - spiega - sull’onestà di Lucano e sulla non esistenza di alcun reato. Abbiamo sempre detto che la prima sentenza era aberrante e abbiamo fornito tutti i dati documentali dai quali emergeva in maniera evidente l’erroneità di quella sentenza. L'istruttoria ha fornito tutti gli elementi per capire che quei reati, semplicemente, non esistevano. La cosa positiva di questa storia è che quando si è innocenti ci sono anche i mezzi per dimostrarlo».
In primo grado le motivazioni avevano fatto emergere non solo alcune forzature tecniche, soprattutto laddove il tribunale aveva deciso di bypassare la sentenza Cavallo e dichiarare utilizzabili intercettazioni che, secondo le Sezioni Unite, andavano cestinate, ma anche un mal celato giudizio morale su Lucano, un «falso innocente», aveva tenuto a sottolineare il presidente Fulvio Accurso. Il collegio sembrava soprattutto volersi difendersi dalle accuse di aver fatto un processo politico, sostenendo che Lucano e i suoi “sodali” avrebbero agito in nome di una «logica predatoria delle risorse pubbliche», che sarebbero servite a soddisfare «appetiti di natura personale, spesso declinati in chiave politica» - nonostante abbia rifiutato qualunque occasione per “salire” di grado - «e soddisfatti strumentalizzando a loro vantaggio il sistema dell’accoglienza dei migranti», diventato «un comodo paravento dietro cui occultare le vistose sottrazioni di denaro pubblico che essi attuavano, per fini esclusivamente individuali».
Poco importa se i soldi che Lucano avrebbe sgraffignato all’accoglienza non gli sono mai stati trovati in tasca: il tornaconto sarebbe stato politico, ovvero fare il sindaco di Riace, paesino di poco più di mille abitanti, dove l’indennità prevista non basterebbe comunque nemmeno per sopravvivere. Per i giudici, però, utilizzando i fondi dell’accoglienza per ristrutturare il frantoio e creare l’albergo diffuso, che hanno dato lavoro a migranti e riacesi, Lucano avrebbe creato una sorta di “fondo pensionistico” per gli anni a venire. Sfruttando il suo ruolo di «dominus indiscusso del sodalizio», un’organizzazione «tutt’altro che rudimentale», che avrebbe strumentalizzato «il sistema dell’accoglienza a beneficio della sua immagine politica». Nulla di tutto ciò, però, sarebbe avvenuto. Anche perché, come evidenziato da Daqua, il cuore della sentenza di condanna era rappresentato da una frase mai pronunciata, una trascrizione fatta dalla polizia giudiziaria e smentita poi dal perito nominato dallo stesso Tribunale che però i giudici hanno utilizzato per motivare la sentenza. Una frase importante per l’accusa di peculato, la più grave. Proprio per tale motivo, aveva detto Daqua in aula, ci sarebbe «il legittimo sospetto che il processo contro Lucano sia stato viziato sin dall’inizio». Anche e soprattutto per il «linguaggio denigratorio» utilizzato dal Tribunale nei suoi confronti. Insomma, «un macroscopico errore» corretto dalla Corte d’Appello. Nel corso della scorsa udienza, Lucano aveva ribadito, tramite una lettera consegnata alla Corte, di aver agito in difesa dei diritti umani. «L’idea del carcere non mi spaventa - aveva spiegato al Dubbio -. Quello che ho fatto interessa me personalmente per questo processo, ma ha un valore molto più grande: Riace ha trasmesso un messaggio al mondo, quello della speranza». La vera posta in gioco era infatti quella «utopia della normalità» immaginata in un luogo prima marginale, poi diventato all’improvviso centro del mondo, tanto da diventare modello. Un modello spazzato via da una politica migratoria che ha dato importanza più ai numeri che alle persone, trasformate in “pacchi” da spostare da un posto all’altro; un modello pericoloso, proprio perché faceva a pezzi quel concetto di emergenza che serviva a giustificare politiche di repressione prive di risultati. Ed ora ad uscirne a brandelli è quella logica che ha tentato, senza riuscirci, di uccidere il modello Riace.