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Pietro Cavallotti
Il governo lo ammette. Lo scrive nero su bianco, in risposta a un’interrogazione parlamentare: lo Stato non sa quanti siano gli innocenti travolti dalle confische antimafia. E neppure conosce il numero dei beni patrimoniali sottratti e poi restituiti ai legittimi proprietari, dopo che un giudice si è accorto che non c’erano elementi infliggere quelle misure. Non ci siamo mai neppure posti il problema: di fatto, il responso che lo Stato fornisce sul numero delle vittime incolpevoli sacrificate al mito dell’antimafia è questo.
Ecco l’incredibile, ma per certi aspetti inevitabile esito dell’interrogazione che Roberto Giachetti – deputato di Italia viva iscritto anche a Partito radicale e Nessuno tocchi Caino, oltre che segretario d’aula a Montecitorio – aveva rivolto lo scorso 10 febbraio all’Esecutivo. Ieri, in commissione Giustizia alla Camera, è stato il sottosegretario Andrea Delmastro a riferire a Giachetti gli argomenti raccolti da via Arenula per contro anche di Palazzo Chigi e del ministero delle Imprese. E si tratta appunto di una replica raggelante. Perché lo Stato di fatto ammette la propria consolidata indifferenza al destino degli esseri umani colpiti senza motivo dalle misure di prevenzione. Il documento letto dal sottosegretario alla Giustizia spiega come l’Agenzia per i beni confiscati, e la direzione generale degli Affari interni che elabora la Relazione semestrale al Parlamento, raccolgano sì statistiche sul numero delle aziende confiscate alla mafia e dei beni restituiti al circuito legale: ma a nessuno è mai venuto in mente di censire chi è rimasto stritolato dal sistema.
Nessuno ha mai avvertito l’urgenza di verificare quanti cittadini fossero stati ingiustamente privati di tutto, della loro azienda o di ogni altro bene in nome della lotta alla mafia. Né appunto si sa quante volte si sia omesso di incrociare le statistiche sulle misure di prevenzione con l’esito dei processi penali. Troppo faticoso, a quanto pare.
Si tratta di un’ammissione rivelatrice. Dà il senso dell’assoluta assenza di proporzione e bilanciamento tra il sistema della prevenzione antimafia e i diritti costituzionalmente garantiti. Non ci si è mai preoccupati di monitorare i dati per capire se quell’equilibrio fosse in pericolo. Si è di fatto accettato, anzi, che quello sbilanciamento ci fosse. L’interrogazione di Giachetti aveva preso spunto innanzitutto dal caso Cavallotti, dalle vicende della famiglia di imprenditori siciliani colpiti dalla confisca di tutti i beni, incluse le abitazioni in cui vivevano, nonostante la piena assoluzione nel processo penale. Ora su quell’abominio, i tre fratelli di Belmonte Mezzagno, un tempo leader negli impianti di metanizzazione, attendono l’esito del ricorso presentato alla Corte europea dei Diritti dell’uomo.
Nella replica del governo, si insiste sulla debolissima tesi secondo cui spogliare un cittadino italiano di ogni bene a fronte della sua innocenza accertata con giudicato penale non costituisca una «pena». La confisca di prevenzione, secondo l’Esecutivo, non ha «natura sanzionatoria», non implica «un giudizio di colpevolezza» ma mira “solo” a «prevenire la commissione di atti criminali» . Un corto circuito illogico sul quale i giudici di Stasburgo si pronunceranno a breve.
Ma appunto, la parte più clamorosa, spiazzante della risposta rivolta dal governo a Giachetti riguarda l’assenza, nella ricordata «Relazione semestrale al Parlamento sui beni sequestrati e confiscati», di «informazioni» relative ai «soggetti» e alle «persone fisiche» colpiti dalla «misura ablativa», cioè dalla confisca o dal sequestro. «Con la conseguenza», è la storica ammissione dello Stato, «che non vengono distinti i procedimenti di prevenzione sulla base del reato presupposto né sulla base dell’esito del relativo procedimento penale».
Tradotto: del fatto che i destinatari risultino, alla fine, innocenti, lo Stato se ne impipa. E ancora, prosegue la risposta della Repubblica italiana, «per quanto riguarda il numero delle aziende dissequestrate, non viene fatta alcuna rilevazione, essendo la Relazione semestrale incentrata esclusivamente sulle vicende successive in termini di confisca e destinazione dei beni». Qui la traduzione è la seguente: ci interessa sapere quante volte siamo riusciti a riutilizzare i beni confiscati alla mafia, ma non se abbiamo dovuto restituire i beni agli innocenti legittimi proprietari e se magari glieli abbiamo restituiti in cenere, se cioè le aziende erano fallite. Non ce ne importa proprio. «A maggior ragione, trattandosi di un dato in alcun modo acquisibile dagli attuali sistemi informatici, nessuna informazione può essere fornita in ordine allo stato economico finanziario delle aziende dissequestrate, ad una eventuale riduzione dei posti di lavoro, del fatturato, del gettito fiscale».
Anche chi ha avuto la sfortuna di essere stato assunto da un imprenditore innocente poi travolto da una confisca antimafia, è carne da macello. Vittima necessaria. Così è scritto. C’è solo da augurarsi che il fatto di averlo messo per iscritto, induca lo Stato a ravvedersi.
Ieri pomeriggio, negli stessi minuti in cui il sottosegretario Delmastro riferiva a Giachetti la risposta all’interrogazione, la materia è stata al centro di un webinar promosso dal Coa di Milano, e in particolare dalla commissione Diritti umani dell’Ordine: vi hanno preso parte Pietro Cavallotti, esponente di seconda generazione della famiglia diventata il simbolo del tritacarne antimafia, l’avvocato che ha seguito i suoi familiari nel ricorso alla Cedu, Baldassarre Lauria, e il professore dell’università Federico II di Napoli Vincenzo Maiello. Hanno offerto agli oltre 200 professionisti collegati gli elementi per comprendere la deriva del sistema. Senza sapere che un documento ufficiale avrebbe di lì a poco confermato tutto.