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La vexata quaestio delle intercettazioni e dell’acquisizione di documentazione informatica torna a far discutere tutti gli operatori del diritto a seguito delle recenti pronunce della Suprema Corte di Cassazione, Sezione VI, la quale ha ritenuto viziate le ordinanze dei Tribunali del Riesame di Milano e Reggio Calabria, in ordine alla conferma di applicazione di misure cautelari personali che individuavano tra i “gravi indizi di colpevolezza” materiale probatorio raccolto grazie alla collaborazione delle Autorità giudiziarie italiane e francesi.
Nello specifico la magistratura inquirente italiana si rivolgeva ai colleghi d’oltralpe con il mezzo dell’Ordine europeo di indagine (Oie) ai sensi della direttiva n. 2014/ 41/ Ue, senza ricorrere all’autorizzazione di un giudice, ritenendo che il materiale probatorio (chat contenute in server protetti da sistemi di crittografia) fosse da acquisirsi ai sensi dell’art. 234 bis c. p. p.. La Suprema Corte, di diverso avviso, ha invece cassato con rinvio le succitate ordinanze sostenendo che i metodi di acquisizione dei dati informatici ad opera delle Autorità giudiziarie francesi sono da ricondursi nell’ambito degli artt. 254 bis e 266 bis c. p. p..
Ad alimentare la fiamma del dibattito, inoltre, si è inserita una recente pronuncia della Consulta che vede quale protagonista il senatore Matteo Renzi nel noto caso Open. Il giudice della Costituzione nella pronuncia 170/ 2023 ha ritenuto di ricondurre la messaggistica telefonica al concetto di corrispondenza, così pretendendo, per la sua acquisizione, almeno l’autorizzazione di un giudice, nel rispetto dell’art. 15 Cost.
Al netto delle argomentazioni più propriamente tecniche e giuridiche, sulle quali lo scrivente si soffermerà più avanti, è indubbio che la questione infiammi il dibattito, in quanto vede il contrapporsi al paradigma del garantismo quello più giustizialista (leggasi nella maniera più neutra possibile). In particolare, il primo ha accolto con favore le ultime sentenze; dall’altra parte c’è chi legge nelle recenti pronunce una rischiosa inversione di tendenza rispetto ai più risalenti arresti della stessa Corte Suprema.
Il dottore Mario Palazzi – della Dda di Roma – ha avuto modo, sempre su queste pagine, di esprimere il proprio disappunto per la piega interpretativa adottata dagli Ermellini: «L’Autorità giudiziaria italiana si è limitata ad acquisire, con l’unico strumento processuale che l’ordinamento nazionale conosce, materiale probatorio che si era già formato nell’ambito di un procedimento penale francese, senza che fosse intervenuta una qualunque forma di partecipazione dell’ufficio di procura o delle forze di polizia nazionali alle fasi di formazione della prova». Continua il magistrato sostenendo che il modo con il quale le Autorità francesi sono riuscite ad estrarre informazioni dai server crittografati rappresenti «un’informazione del tutto superflua ai fini della validità dell’atto e non mortifica certo il diritto di difesa».
Pur comprendendo il punto di vista del Dr. Palazzi, chi scrive non può dirsi d’accordo per le motivazioni qui di seguito succintamente esposte. In primo luogo, le modalità con cui un’Autorità estera procede all’acquisizione di materiale probatorio sono – e devono essere – assolutamente oggetto di valutazione da parte del giudice nazionale. In alternativa si potrebbe per assurdo ammettere come acquisibili delle dichiarazioni riportate su un supporto materiale che sono state estorte con violenza (!).
Ad onor del vero la direttiva n. 2014/ 41/ Ue nulla dice in ordine all’utilizzabilità delle prove acquisite all’estero, per cui si dovrà far appello ai principi consolidati dalla giurisprudenza in ordine all’utilizzabilità dei risultati delle rogatorie: prevalenza della “lex loci” sulla “lex fori”, ossia si applica la legge del luogo ove le risultanze probatorie vengono acquisite con il limite che le stesse non possono essere utilizzate se contrastano con i principi fondamentali dell’ordinamento.
La conferma giunge anche dallo stesso art. 746 ter, comma 7 c. p. p.. Il giudice nazionale, dunque – così pare potersi ulteriormente desumere dalla lettera dell’art. 6, par. 1, lett. b) – ha il dovere di verificare che il materiale probatorio venga acquisito nel rispetto dei diritti fondamentali nazionali, nulla potendo eccepire. In secondo luogo è dunque necessario comprendere se l’acquisizione ad opera delle Autorità francesi possa dirsi in contrasto con il nostro ordinamento.
Se si analizzano i fatti storici da cui originano le ordinanze, appare quanto meno difficoltoso ricondurre l’attività delle Autorità francesi nell’ambito di applicazione dell’art. 234 bis c. p. p., in quanto quest’ultime non si sono limitate ad estrarre mero materiale informatico “dematerializzato” e già preesistente all’attività di indagine (che ha avuto origine dall’Oie italiana), ma sono entrate in possesso di copiosissima corrispondenza grazie ad attività ulteriori quali – così pare – sequestri ed intercettazioni funzionali a carpire occultamente le chiavi di crittografia necessarie per rendere intellegibili le chat presenti sui server.
Se così è, appaiono ampiamente condivisibili le recenti pronunce della Suprema Corte, le quali affermano che le attività di indagine espletate dai colleghi d’oltralpe siano da ricondursi nel campo di applicazione ex artt. 254 bis e 266 bis c. p. p.. Pare vertere in tal senso anche la recente e discussa sentenza della Consulta, la quale ha chiarito che il concetto di corrispondenza a cui va ricondotta la tutela ex art. 15 Cost. è ampiamente comprensiva ed atta “ad abbracciare ogni comunicazione di pensiero umano tra due o più persone determinate, attuata in modo diverso dalla conversazione in presenza”.
Pertanto la tutela accordata dall’articolo citato consente la limitazione della corrispondenza ed altre forme di comunicazione soltanto “per atto motivato dell’autorità giudiziaria con le garanzie stabilite dalla legge” e ne estende la copertura ad ogni forma di comunicazione compresi gli strumenti elettronici ed informatici.
Avvalla ulteriormente una simile impostazione interpretativa anche la stessa giurisprudenza comunitaria, la quale con la sentenza resa dalla Grande Camera del 2 marzo 2021 (H. K., C- 746/ 18) ha reso ulteriormente stringenti le condizioni per procedere all’acquisizione di dati e comunicazioni telefoniche ed informatiche, costringendo il Legislatore italiano ad intervenire repentinamente con il D. l. 132/ 2021 che apportato rilevanti modifiche al Codice della privacy.
In altri termini, se si ritiene che l’attività di indagine delle Autorità francesi siano da ricondursi nell’alveo degli artt. 254 bis e 266 bis c. p. p., allora non possono non riconoscersi alle difese tutte quelle tutele sancite tanto dalla giurisprudenza nazionale, quanto da quella europea, rendendo il materiale probatorio così acquisito inutilizzabile per contrasto all’ordinamento nazionale.
Ad ogni modo, si attende con impazienza il parere delle SS. UU. alle quali la III Sezione della Cassazione in data 3 novembre 2023 ha rimesso le seguenti questioni di diritto: 1) se, in tema di mezzi di prova, la acquisizione mediante Oie di messaggi su chat di gruppo presso l’Autorità giudiziaria straniera che ne ha eseguito la decrittazione costituisca o meno acquisizione di “documenti e di dati informatici” ai sensi dell’art. 234 bis c. p. p.; 2) se, inoltre, tale acquisizione debba essere oggetto, ai fini della utilizzabilità dei dati in tal modo versati in atti, di preventiva o successiva verifica giurisdizionale della sua legittimità da parte della Autorità giudiziaria nazionale.