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Il giudice Andrea Paladino
Non è corrotto ma è stato cattivo. Sarà perché non è stato mai iscritto a nessuna corrente delle toghe. Sarà perché, caso unico in quel mondo, ha avuto il coraggio di chiedere scusa a tutti gli innocenti vittime di gogna e ingiustizia. Fatto sta che il giudice Andrea Padalino, che in gioventù fu gip di Mani Pulite e in seguito pm a Torino, è da nove anni a sua volta vittima.
Di tutto quel che si può immaginare, dall’inchiesta penale da cui è stato assolto, fino all’incolpazione sul piano disciplinare rispetto alla quale è stato invece “condannato” dal Csm con la sospensione dall’incarico per un anno e sei mesi e il trasferimento all’Aquila. Così dovrà lasciare il tribunale civile di Vercelli, proprio dopo aver portato a casa il successo, riconosciuto da una graduatoria del Sole 24 ore, per aver smaltito ogni arretrato con una velocità superiore a quella di tutti gli altri. E andare a 500 chilometri di distanza. E pensare che il procuratore generale della Cassazione aveva chiesto per il magistrato torinese addirittura la radiazione dalla magistratura. Ora non resta che il ricorso alle sezioni unite della Cassazione.
Entriamo nel regno dell’assurdo. Perché circa nove anni fa, quando Andrea Padalino era pm a Torino, era stato proprio il suo capo, Armando Spataro, anche lui proveniente da Milano, dove aveva seguito inchieste di terrorismo ed era stato colui che aveva condotto il “pentimento” degli assassini del giornalista Walter Tobagi, Marco Barbone e Marco Morandini, a promuovere l’azione penale nei suoi confronti. Lo aveva accusato di corruzione in atti giudiziari e abuso d’ufficio. E aveva dovuto mandare gli atti proprio a Milano, come impone l’articolo 11 del codice di procedura penale, che rende incompatibile l’inchiesta che riguarda un magistrato nello stesso distretto di corte d’appello in cui questi opera.
Nel capoluogo lombardo il fascicolo era finito nelle mani di Laura Pedio ed Eugenio Fusco, due procuratori molto esperti e molto conosciuti per altre vicende, non tutte proprio chiare come quelle che hanno incrociato la vita dl processo Eni. Anche in questo caso nascono sospetti, che hanno determinato da parte del giudice Padalino la decisione di una denuncia alla procura di Brescia. Perché trascorrono cinque anni, nel corso dei quali a ogni spiffero di vento salta fuori, “spuntano”, come scrivono i giornalisti quando non possono rivelare la fonte, che in genere è un magistrato, intercettazioni che evocano il nome Padalino. E si monta la panna, con la solita gogna. Anni nel corso di quali, denuncia Padalino, i pm di Milano sarebbero “inerti”. Singolare scelta dell’attributo, lo stesso usato da un altro magistrato, il pm Paolo Storari sulle deposizioni dell’avvocato Amara a la presunta esistenza di una loggia segreta. È la vicenda che porterà in seguito alla condanna di un’altra ex toga milanese, Piercamillo Davigo.
Il giudice Padalino sospetta che la procura di Milano sia inerte, perché in realtà, in modo sotterraneo, sarebbero ancora i colleghi torinesi a condurre le danze. Violando la legge. Quando si arriva al processo, i pm chiedono per Paladino la condanna a tre anni di carcere, per corruzione e abuso d’ufficio, ma il tribunale lo assolve. E loro ricorrono in appello solo per l’abuso. Ma come, questo giudice non era più un corrotto? Oltre a tutto, proprio come era successo per il processo Eni, la procura generale alzerà il ditino a impartire una bella lezione ai colleghi dell’accusa del primo grado, con la rinuncia all’appello di un processo inutile e sbagliato. Andrea Paladino è innocente, assolto definitivamente.
Ma il venticello continua a soffiare, al Csm. Nel frattempo Andrea Padalino continua a svolgere il ruolo di giudice civile al tribunale di Vercelli. La vicenda che gli è bruciata addosso, lo porta a trasformare il proprio caso personale in denuncia pubblica. Nel novembre dello scorso anno, partecipando a un convegno indetto dall’Ordine dei commercialisti dal titolo “Assoluzione e onorabilità del professionista: come tutelare i diritti dell’innocente”, non ha timore nel mettersi a nudo. “Io giudice, dice, ho conosciuto la violenza del processo mediatico. E chiedo scusa”. Nessun magistrato aveva mai osato tanto. Era piombato giovanissimo nel Gotha delle toghe milanesi più vezzeggiate d’Italia. E oggi si ritrova, a 62 anni, mentre ne mancano otto dalla pensione, trasferito a cinquecento chilometri di distanza dalla sua residenza torinese, dalla sua famiglia, da quella ex bambina, ora adolescente, che a sei anni gli aveva chiesto “papà che cosa è l’abuso d’ufficio?”. Sa che cosa è la distruzione di una vita.
Si domanda ancora il perché di quel che gli sta succedendo. E con lui il suo difensore, l’avvocato Massimo Dinoia, che a Milano ha seguito processi molto importanti, ma che non ha esitazione a definirsi sconcertato per la decisione della sezione disciplinare del Csm guidata dal presidente Fabio Pinelli. Quale è la “colpa” del giudice Padalino? “Ha usato la sua qualità di magistrato, al di fuori dell’esercizio delle funzioni, per ottenere vantaggi per sé”.
Il vulnus all’onorabilità della toga sarebbe consistito in un’ospitalità in albergo, dove il magistrato avrebbe soggiornato con la famiglia e anche gli uomini della scorta. Ma il problema è giuridico. Perché quell’episodio faceva parte del sistema di accuse presentate nell’indagine penale, da cui Andrea Padalino è stato però assolto. Se non era un reato, che cosa era? Subentrano allora una serie di modifiche dell’incolpazione, a scalare. Sembra sempre la solita favoletta del lupo e l’agnello: se non mi hai intorbidato l’acqua tu sarà stato tuo padre o forse tuo nonno. Se non sei corrotto, sicuramente sei colpevole di aver ricevuto regalie da una persona che aveva subito una condanna nello stesso distretto di corte d’appello in cui operi tu. Poi, a scendere: se il vantaggio non l’hai avuto da quel condannato, il tuo benefattore sarà stato il suo avvocato difensore.
Ma se quel legale, come si scoprirà, assumerà la difesa di quel condannato solo due anni dopo la tua ospitalità in quell’albergo, resta il fatto che tu non hai pagato il conto. O meglio, dici di averlo pagato ma non puoi dimostrarlo. Certo, se riavvolgiamo il nastro, mentre a Brescia attendiamo la decisione di un gup sulle denunce avanzate da Padalino e la procura vorrebbe già archiviare, possiamo domandarci che fine ha fatto quello scandalo di un magistrato corrotto che inondava le pagine dei giornali otto o nove anni fa. Non ci resta che dire ” bravo” al Consiglio Superiore, che dopo lo scandalo Palamara non ha voluto né saputo riformare se stesso, ma si mostra inflessibile nei confronti di uno dei pochi magistrati che non fanno vita di corrente e che hanno il coraggio di denunciare certi comportamenti di alcuni colleghi. E che continua a essere vittima. Prima in sede penale e poi in quella disciplinare. Neanche fosse stato condannato. Non è corrotto ma è stato cattivo.