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È scontro pesante a distanza tra un giornalista e i penalisti veneziani. Oggetto della contesa: il ruolo dell’avvocato che difende presunti mafiosi e la sua libertà di espressione in aula. Ma vediamo cosa è successo. «Abbiamo importato oltre alle mafie anche il metodo mafioso che è esattamente questo: cioè le minacce agli organi di stampa e ai giornalisti con nome e cognome vengono fatte dagli avvocati dei mafiosi e non era mai successo questo nel Veneto», ha dichiarato qualche giorno fa un giornalista veneziano antimafia di cronaca e inchiesta ad una emittente televisiva, commentando il processo ai cosiddetti casalesi a Eraclea.
Il giornalista ha poi proseguito: «Io non discuto sul fatto che un avvocato difensore dica che è tutta colpa della stampa: succede sempre... Sono preoccupato dal fatto che gli avvocati difensori abbiano deciso di attaccarmi un bersaglio sulla schiena, cioè di indicarmi direttamente come il responsabile di quello che sta succedendo, come se il processo l'avessi fatto io. Ecco perché dico: abbiamo importato le mafie e purtroppo abbiamo importato anche questo meccanismo bruttissimo per cui si indica direttamente il nemico con nome e cognome. Non era mai successo prima e spero che non succeda mai più».
Come spiega l’emittente Antennatre, il nome del giornalista del Gazzettino, Maurizio Dianese, «è stato citato dagli avvocati di Luciano Donadio che, in aula bunker a Mestre, hanno tentato di smontare la ricostruzione della pubblica accusa che, la scorsa settimana, ha chiesto 30 anni di reclusione per l’uomo accusato di essere stato a capo di un’organizzazione di stampo mafioso operante nel Veneto orientale per 20 anni. Nella loro arringa, i legali, hanno attaccato la stampa senza giri di parole, definendola morbosa. “Si è messo in moto un circolo vizioso, hanno detto, la mafia a Eraclea c’è perché lo dice il giornalista”».
Le dichiarazioni di Dianese hanno subito suscitato la reazione critica della Camera penale veneziana che ha reso noto un duro comunicato. Innanzitutto riassumono i concetti espressi dal giornalista: «1) Gli "avvocati dei mafiosi", applicando "esattamente" il "metodo mafioso" importato, hanno formulato in aula minacce alla stampa, si intende anch'esse di natura mafiosa; 2) "Succede sempre" che gli avvocati difensori dicano che "è tutta colpa della stampa”; 3) gli avvocati difensori "hanno deciso" di "attaccare" sulla schiena del giornalista "un bersaglio", indicandolo come nemico. E ciò non deve più accadere».
La Camera penale veneziana, «a fronte di un tale violentissimo attacco al processo e al diritto di difesa che vi è connaturato», ha osservato innanzitutto che «negli Stati di diritto anche pre-illuministi, il difensore gode della prerogativa di non essere perseguito per le espressioni utilizzate in discussione e addirittura per le offese (libertas convicii). Chiunque comprende che, se così non fosse, non vi sarebbe diritto di difesa. La libera argomentazione è oggi tutelata dall'art. 598 c.p.». Ovviamente questo non significa libertà assoluta di divagare, offendere o, peggio, minacciare. «La stessa norma fa salvo il potere del giudice di adottare "provvedimenti disciplinari"». Ma anche molto di più: «Il presidente dirige la discussione e impedisce ogni divagazione, ripetizione e interruzione" (art. 523, co. 3 c.p.p.). E ciò nell'alveo di un più generale penetrante potere di disciplina dell'udienza, affidato al Giudice: "La disciplina dell'udienza e la direzione del dibattimento sono esercitate dal presidente che decide senza formalità", funzioni per le quali il presidente "si avvale, ove occorra, anche della forza pubblica" (art. 470 c.p.p.)». E a chiudere il cerchio, «"quando viene commesso un reato in udienza, il pubblico ministero procede a norma di legge" (art. 476 c.p.p.)».
Secondo i penalisti veneziani, «con la sua improvvida pubblica intemerata, il giornalista mostra di ignorare completamente tale assetto normativo e valoriale; nel duplice significato di non conoscerlo, sprezzando il profondo valore di rango costituzionale che lo sostiene». Così facendo, «egli ha prima di tutto violato il Giudizio, il processo; la cui immagine non è solo l'essere atto di tre persone/ruoli (il giudice, l'accusa e la difesa), ma l'incarnarsi in un giudice terzo e imparziale. Quel giudice che, come si è precisato, possiede una serie di strumenti forti ed efficaci per garantire la correttezza dello svolgersi del Giudizio». Inoltre, «l'attacco al diritto di difesa, insito nella pretesa di infrangere il recinto del giudizio interpretando e sindacando tratti di arringa difensiva, implica il tentativo di comprimere e umiliare le libertà argomentative del difensore, le libertà di toga. Tentativo che si risolve in una sorta di pretesa di sovragiudizio, superiore al giudice e alle parti; un giudizio mediatico e volgare che violenta il processo penale».
Infine, rileva la Camera penale, «l'attacco pesantemente oltraggioso che trasfigura la libertà argomentativa processuale, espletata nel cerchio sacro del processo, nientemeno che in strumento di minaccia mafiosa; attacco talmente impudico da richiamare l'immagine del bersaglio attaccato alla schiena e, dunque, da evocare l'idea dell'agguato armato». Per concludere: «Ognuno svolga liberamente la propria professione ma nessuno attenti al processo. Chi lo fa, ci trova schierati in difesa della civiltà, prima che dello Stato di diritto».