Il caso tragico di Enzo Tortora? Robetta di quarant’anni fa. Brutta cosa, il “canto del cigno” con cui il capo sindacale delle toghe Giuseppe Santalucia annuncia tramite un giornalista amico del Corriere della Sera di non ricandidarsi al vertice in scadenza di Anm. Non una parola di autocritica (qualche errore l’avrà pur fatto), ma rivendicazione a palate delle parole magiche con cui si difende la categoria, che sono sempre Autonomia e Indipendenza e mai, per dimenticanza, Imparzialità, valore costituzionale di rango come le precedenti. Certo, evocare Enzo Tortora e la proposta parlamentare di istituire una giornata all’anno in cui, nel nome del giornalista morto di malagiustizia, si ricordino le migliaia di suoi fratelli e sorelle che hanno vissuto gli stessi drammi, molti con la vita distrutta fino al suicidio, per i quali nessuno ha assunto la propria responsabilità, va a toccare nervi scoperti.

I nervi di coloro che, di fronte a questi strazi, sanno di essere sempre al riparo della propria impunità, perché non pagheranno gli “errori” commessi, che spesso andrebbero chiamati con altri nomi, come sciatteria o imperizia, né sul piano disciplinare né su quello civile. Ma intanto lo Stato, cioè i cittadini, continua a pagare per loro. Loro, le toghe, l’unica vera casta ormai in circolazione, su cui però non si scrivono libri che aprano la strada a una nuova stagione di Mani Pulite. Dobbiamo proprio ogni giorno, mentre il sindacato dei magistrati annuncia scioperi contro ogni tipo di riforma, il ministro si chiami Cartabia o Nordio, ricordare i numeri che con un lavoro prezioso ci offre da 25 anni l’associazione Errorigiudiziari.com?

Ebbene facciamolo una volta di più, consapevoli del fatto che ci saranno sempre tanti Santalucia a replicare che chiunque esibisca la carne viva delle loro manchevolezze, in realtà vuole solo “controllare il pubblico ministero” e trasformarlo nel burattino del ministro di giustizia. Ecco perché non interessa al capo del sindacato toghe non solo la giornata di ricordo delle migliaia di martiri di ingiustizia, ma neanche la stessa figura di Enzo Tortora. «…risale a quarant’anni fa -liquida nell’intervista al Corriere - e tanti passi avanti sono stati fatti nella gestione dei pentiti, dei maxiprocessi, fermo restando che allora furono commessi gravi e tragici errori».

Ma siamo sicuri che davvero siano stati fatti tanti passi in avanti? Basterebbe citare quel che succede ogni giorno nei tribunali della Calabria, fino all’ultima sentenza della Cassazione che ha annullato con rinvio uno dei processi più scandalosi del secolo scorso, quello chiamato “’ndrangheta stragista”. Quello in cui un “pentito” raccontava di aver visto Berlusconi e Craxi a passeggio in un agrumeto con un capomafia calabrese. Processo in cui è centrale un altro eroe del “pentitismo”, quel Franco Pino che tanti anni fa aveva cercato di mandare in galera chi scrive insieme a Vittorio Sgarbi sulla base di fantasie farneticanti. Del resto basta guardare i dati dell’amministrazione della giustizia in Calabria per verificare che sia Reggio che Catanzaro sono in fondo alla lista dei buoni amministratori di giustizia, ma in testa a quella sul risarcimento dei danni per numero di errori giudiziari. Ma basta attraversare il mar Tirreno per trovare il caso più clamoroso avvenuto in Sardegna, quello di Beniamino Zuncheddu, il pastore sardo rimasto in carcere 33 anni proprio per le parole di un cosiddetto “pentito”, uno di quelli la cui gestione sarebbe cambiata completamente dai tempi di Tortora, secondo la lettura del dottor Santalucia. Dobbiamo dunque ricordargli ogni giorno i numeri dei risarcimenti che lo Stato, cioè, ricordiamolo ancora, i cittadini, ha dovuto versare alle vittime di errori giudiziari e ingiuste detenzioni?

Ebbene, repetita juvant: dal 1991 fino alla fine del 2023 i casi sono stati 31.397, quasi mille all’anno, e la spesa va a toccare il miliardo di euro. È sufficiente per far arrossire qualcuno? Passiamo allora a esaminare gli altri dati, quelli della responsabilità. A fronte dei tanti casi in cui una o più toghe ha preso lucciole per lanterne, qualcuno di loro è almeno andato in punizione dietro la lavagna? Neppure per sogno. Partiamo dalla responsabilità civile, e limitiamoci agli ultimi dieci anni. Tra il 2010 e il 2022 lo Stato italiano ha avviato 644 azioni di rivalsa nei confronti di altrettante toghe, ma solo 8 magistrati sono stati condannati, cioè l’1,2%. Chi l’ha deciso? Qualcuno di loro. Ma saranno almeno stati sgridati, quelli che hanno sbagliato, una piccola tiratina d’orecchi, da quell’organismo che si chiama Csm e che pare intoccabile da qualunque riforma, sul piano disciplinare? Pura illusione. Delle 90 azioni disciplinari, che sono già poche rispetto ai danni prodotti, avviate l’anno scorso, sono stati solo 15 i magistrati puniti, 8 dei quali solo con la censura, il provvedimento più lieve. La classica tiratina d’orecchi, insomma.

Ma che importa tutto ciò? I giornali (alcuni, per lo meno) li scrivono tutti i giorni, questi dati. Lo Stato spende quasi 30 milioni all’anno perla scarsa professionalità di tanti magistrati, quasi nessuno dei quali viene sanzionato né in sede civile né in quella disciplinare. Ovvio che la corporazione tutta intera si stringa compatta contro ogni riforma che possa portare a cambiamenti che intacchino lo status quo. Soprattutto che possano spezzare in due, con la separazione delle carriere, la complicità, fatta spesso di ricatti reciproci tra giudici e pm, come ci ha ben spiegato Luca Palamara, sulla gestione del proprio potere, errori giudiziari compresi. Ecco perché per la Anm la giornata di ricordo delle vittime di malagiustizia non si deve fare, neanche nel ricordo di Enzo Tortora, robetta di 40 anni fa.