In un’aula di tribunale, il silenzio viene interrotto da poche righe di una sentenza che, sebbene favorevole, lasciano una scia di amarezza e dolore. «Non è giusta quella formula. Sono innocente e quel reato non sussiste». Un’assoluzione che non restituisce a Sebastiano Giorgi la serenità perduta. Le parole che dopo dieci anni di calvario sigillano la vicenda giudiziaria dell’ex sindaco di San Luca sono fredde: «Non è più previsto dalla legge come reato». Dieci anni di vita sospesa, di dignità calpestata, di sofferenza per un uomo che si è dichiarato innocente sin dal primo giorno. La sua colpa? Essere stato sindaco dal 2008 al 2013 di San Luca, un paese immerso nella bellezza dell’Aspromonte e da sempre segnato da una storia complessa e tormentata, dove la ‘ndrangheta, con le sue faide sanguinose, ha gettato un’ombra lunga sull’intera comunità. «Ero il sindaco del periodo dopo la strage di Duisburg. Tutte le attenzioni degli inquirenti, magistratura e media erano concentrate su di noi – spiega Giorgi -. Io volevo solo riscattare la mia comunità, portare un vento di cambiamento in un territorio trafitto da aspetti negativi».

Giorgi oggi è un uomo segnato da un’esperienza che lo ha profondamente cambiato. Un calvario, il suo, iniziato nel dicembre 2013 con l’arresto nell’ambito dell’operazione “Inganno” della Dda di Reggio. Un’inchiesta che portò alla detenzione di diverse persone sospettate di legami con la ‘ndrangheta, tra le quali Giorgi e il consigliere comunale Francesco Murdaca. «Un solo capo d’accusa mi veniva contestato, l’associazione mafiosa con persone che non conoscevo». Le accuse erano gravissime: aver agevolato le cosche negli appalti pubblici e negli affari del Comune. «Mi contestavano degli appalti per interesse della mafia, ma appena eletto avevo firmato con la Prefettura una convenzione affinché alla stazione unica appaltante andassero i lavori da 80mila euro e non solo quelli superiori a 150mila. Se avessi voluto favorire gli interessi della mafia, avrei agito in quel modo?».

I primi giorni in prigione furono un’esperienza «devastante, vissuta in condizioni disumane», dice. «In carcere fino al 22 dicembre non avevo nulla, nemmeno uno spazzolino. Sono stati i detenuti a darmi uno spazzolino nuovo, regalarmi qualche ricambio e da loro ho avuto il primo piatto di pasta caldo», racconta Giorgi, con la voce intrisa di dolore. «Sono stato trattato come un criminale, preso all’alba, portato in carcere. Potevano indagare su di me, ne avevano tutto il diritto, ma non avrebbero dovuto sbattermi in carcere da innocente», ripete come un mantra, sperando che quelle parole possano alleviare l’amarezza. Fin da subito la battaglia legale portata avanti dall’avvocato Rosario Scarfò è concentrata sul tentativo di dimostrare la totale estraneità di Giorgi alla ‘ndrangheta. «Pensavo fosse facile, perché ero innocente, e invece…». Il percorso si è dimostrato lungo e tortuoso. «Avevo un solo capo d’accusa: l'associazione mafiosa, credevo che spiegando tutto al giudice, dimostrando la mia innocenza, spiegando nel dettaglio la faccenda degli appalti, mi avrebbero fatto tornare a casa, invece mi hanno riportato in carcere», ricorda amaramente Giorgi. Da quello di Roma a quello di Frosinone. A febbraio 2014, su richiesta del suo avvocato, Giorgi è stato sentito per la prima volta dal gip che aveva firmato l’ordinanza di custodia cautelare per un nuovo interrogatorio. «Giorgi era stato interrogato per rogatoria e – spiega Scarfò - in sede di indagini difensive erano emersi nuovi atti non valutati dal gip». Nonostante i tentativi di ottenere una revisione della misura cautelare, Giorgi è rimasto dietro le sbarre. Una luce si era intravista con il Tribunale della Libertà, che aveva riqualificato l’imputazione provvisoria: la partecipazione all’associazione mafiosa, il reato contestato a Giorgi, si è trasformato in concorso esterno. Ma solo nel luglio del 2014, dopo sette mesi di detenzione, Giorgi è stato finalmente liberato. Da uomo libero ha affrontato il processo. «Scegliamo la definizione del processo allo stato degli atti non per lo sconto di un terzo di pena ma - spiega Scarfò - perché eravamo sicuri che già gli atti dimostrassero la totale estraneità di Giorgi. E soprattutto, con l’abbreviato avremmo messo in tempi ristretti la parola fine all’incubo che stava vivendo Sebastiano».

Nel gennaio del 2015 la sentenza di primo grado: il gup di Reggio Calabria condannò Giorgi a sei anni di reclusione e Francesco Murdaca, il suo consigliere comunale, a cinque anni. La difesa fece ricorso in appello e nel 2016 arrivò la sentenza: Giorgi venne condannato a 2 anni e 8 mesi di reclusione, Murdaca a 1 anno e 10 giorni con pena sospesa. «Qui avvenne un’anomalia», dice Giorgi. La Corte d’Appello, infatti, nella sentenza introdusse un nuovo elemento: il reato di abuso d’ufficio aggravato dal concorso esterno in associazione mafiosa. «Un reato che non era mai stato contestato, di cui non c’è traccia nell’ordinanza o nelle carte». La Cassazione, a novembre del 2017, ha annullato la sentenza rimandando il caso in Corte d’Appello per un nuovo esame. Gli ermellini, nelle motivazioni, evidenziarono gravi lacune motivazionali, in particolare, per giustificare la diversa qualificazione giuridica attribuita ai fatti contestati. Per i giudici, «la Corte avrebbe omesso di specificare le norme la cui violazione viene addebitata ai due imputati, di precisare il ruolo dagli stessi effettivamente ricoperto nell’assegnazione e gestione degli apparati oggetto di contestazione, di individuare l’azione o l’omissione attraverso cui il pubblico ufficiale ha realizzato la condotta di abuso». Le settimane, intanto, si trasformano in anni, cambiano i governi e anche le normative. «Abbiamo fatto più volte richiesta di fissazione dell’udienza. Avevamo fretta, perché eravamo certi dell’innocenza di Giorgi – precisa l’avvocato - e per concludere il tutto. Non volevo rischiare che intervenisse la prescrizione, perché volevo l’assoluzione piena, come merita un innocente». Ma ha dovuto attendere sette lunghi «ed estenuanti» anni per un nuovo processo. Il 17 settembre la sentenza con contestuale deposito delle motivazioni: data l’entrata in vigore ad agosto 2024 della legge Nordio che ha abolito l’abuso di ufficio, «non resta che prendere atto dell’intervenuta abolitio criminis e pronunciare, in riforma della sentenza impugnata, l’assoluzione degli imputati perché il fatto non è più previsto dalla legge come reato». Ma Giorgi non riesce a trovare pace. «Avrebbero dovuto assolvermi con la formula più giusta e corretta: perché il fatto non sussiste - afferma con rabbia -. Sono stato arrestato e massacrato solo per fare strada a qualche carriera. Ma le carriere non si fanno sulle spalle degli innocenti e di una comunità, quella di San Luca, da sempre svenduta per fare crescere una falsa lotta alla ‘ndrangheta».

In dieci anni di «massacro», Giorgi ha dovuto affrontare anche gravi problemi familiari. Sua moglie, durante il periodo di detenzione, si è ammalata gravemente: «Dopo il terzo colloquio ho visto mia moglie cambiata, era dimagrita tantissimo. Si è ammalata probabilmente a causa del forte stress. Dopo due operazioni e tante cure lottiamo ancora», racconta con la voce rotta dal dolore. «Non ambivo ad alcuna carica. Non hanno distrutto una carriera, hanno distrutto la vita e la serenità di persone per bene». Perché la vita dopo il carcere «non è stata facile. Per due anni – spiega - non sono riuscito a trovare lavoro». In dieci anni, Giorgi ha avuto la vicinanza della famiglia, degli amici e del suo avvocato. «In Rosario Scarfò – dice Giorgi con la voce rotta dalla commozione - ho trovato conforto. Veniva in carcere e mi ascoltava per ore, ogni settimana mi chiamava solo per chiedermi come stavo. Ha fatto tanto per me, si è speso con tutto se stesso». Oggi la vicenda giudiziaria di Giorgi è un caso emblematico. Quello di un uomo innocente, l’ennesimo, che dall’oggi al domani è costretto a ricostruire la propria intera esistenza dopo esser stato sputato fuori dall’abisso di una ingiusta detenzione.