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IMAGOECONOMICA
Mattia Feltri è come gli scettici folgorati sulla via di Damasco. Solo che all’allora giovane cronista col cognome ingombrante non si è rivelato lo Spirito, ma la sostanza di Mani Pulite. Che poi, diciamolo subito: quel cognome è scomodo solo per chi pretende di appiccicarglielo come un marchio di identità. Al figlio di Vittorio basta essere Mattia: «Tra poco compio 55 anni, se non avessi autonomia di giudizio sarebbe bizzarro. E poi con lui ho un ottimo rapporto, al netto di litigate furibonde». Ma ogni cosa a suo tempo: ai pranzi di Natale in casa Feltri ci arriviamo.
Con il direttore dell’Huffpost prima riavvolgiamo il nastro di almeno trent’anni, quando comincia la storia del giornalista “riluttante”. Siamo dalle parti di Bergamo, dove Mattia Feltri studia e si arrabatta col lavoro in birreria. Sul treno che lo porta all’Università legge tutti i giorni la Stampa, «il giornale più bello dell’epoca», fine anni ‘80. Ma a fare il giornalista non ci pensa neanche, fino a quando suo padre non gli fa notare che c’è modo di guadagnare qualche soldino con la scrittura e lo lancia nella testata locale che aveva diretto qualche tempo prima, Bergamo oggi.
Mattia Feltri la smania dello scoop non ce l’ha. Ma scrivere e leggere gli piace parecchio, anzi, «non farei altro». E la svolta arriva tra il ‘92 e il ‘93, quando lo mandano in tribunale a coprire la giudiziaria. Gli anni sono quelli che sono, e «io ero molto contento perché li volevo vedere tutti in galera. Una speciale di gulag italiano in cui sarebbero stati rinchiusi tutti i politici». Mani pulite è un’occasione ghiottissima, per i giornalisti. Compreso papà Vittorio, che ci fa la fortuna dell’Indipendente. Ma per Mattia Feltri è solo l’ultimo reflusso manettaro prima della conversione.
«Il bello della vita è che ti demolisce tutti gli slanci giovanili. Se sopravvivi a questa demolizione diventi un po’ saggio, sennò ti incattivisci e basta». Per lui sembra vera la prima, tanto che dopo l’adesione un po’ «feroce» al pool di Milano, «il più grande errore della mia vita», è passato dal lato oscuro della giustizia, il garantismo. Ma perché? Feltri ci pensa. E si ricorda di quel magistrato del sud e di un povero valligiano bergamasco che non riescono proprio a capirsi. Rivive il momento in cui ha avuto «la precisa sensazione che, attraverso la magistratura, lo Stato stava usando una violenza molto più grande di quella che l’imputato aveva usato sulla sua vittima».
La mutazione è compiuta: Mattia Feltri la giudiziaria non la può fare. I magistrati se la prendono sul personale, sembra che il giovane cronista gli abbia voltato le spalle. E poi gli arrivano troppe querele, già in provincia, ma soprattutto al Foglio. Perché Giuliano Ferrara gli commissiona la controinchiesta che diventerà anche un libro, Novantatré. L’anno del terrore di Mani pulite (Marsilio, 2016). E Feltri si inventa il diario quotidiano calato nel tempo dei fatti, ma col senno di poi. Cioè con l’esperienza di chi ha frequentato i tribunali e le procure e dentro la giustizia ci ha visto l’ingiustizia più grande. Nel giro di poco parte un fuoco di fila dal pool di Milano, «il chilometro quadrato più potente di Italia». Tanto è vero che adesso qualcuno gli rimprovera l’amicizia con l’ex nemico e pm Gherardo Colombo. «Ma che si vive a fare se poi non si riesce a trovare un punto comune». Capiamo che è il caso di approfondire. E Feltri non si sottrae: «Tutto quello che Colombo dice ora lo condivido, ma contraddice tutto quello che ha fatto ieri, nonostante lui non rinneghi quello che ha fatto ieri, ma forse è giusto così...».
Passiamo oltre, ma in aria toghe, volando su Antonio Ingroia - «uno che ti dice “sono garantista con gli innocenti” lo devi buttare fuori dalla magistratura in 35 secondi». Ce n’è anche per Carlo Nordio, che «per capirlo serve Goethe, noi non bastiamo». E per Enrico Costa: «Se un paese è forcaiolo non può diventare garantista per decreto». È una questione di cultura e di responsabilità, dice Feltri: «Ho un enorme rispetto per la magistratura, per questo suo compito devastante di togliere la libertà in un mondo che si fonda sulla libertà. Ma è la magistratura a non avere più rispetto di sé. Perché è castale, è permalosa, vuole che la sua indipendenza si trasformi in un potere indiscusso. Ha un senso di superiorità che è orrendo».
Non si risparmia, dicevamo, Mattia Feltri. Tiene il piglio da professore universitario, si indigna per un momento, mai poi nella stanza dell’Huffpost che ci ospita torna il sereno. E qui si misura tutta la distanza con papà Vittorio. Uno che «ha bisogno di stare in mezzo alle sparatorie, sennò si annoia. Io invece me ne voglio stare nella casa in collina dove non arriva neanche l’eco delle sparatorie». Veniamo al dunque. Le domande su tuo padre ti hanno stufato? «Che sia mio padre è un dato non smentibile. Quando ero ragazzo era il mio eroe, poi cresci e capisci che anche i genitori possono dire cazzate. Niente di traumatico». Mattia Feltri si ricorda di un padre affettuoso, che c’è poco perché deve mantenere una famiglia numerosa, tre sorelle e un cugino. Ma quando c’è, c’è eccome: gli porta pile di libri di Jules Verne, che per lui, costretto a letto da bambino per una malattia, vogliono dire tutto. Quei libri di papà e lo stadio con papà, che oggi sono i libri e le serie tv con i suoi due figli e la moglie Annalena Benini. «Adoro passare il tempo con loro, anche se vorrei passarne di più».
La passione granata invece ha fatto il suo tempo. «Il calcio è diventato noioso, per me che ne ho visto troppo. Avevo il culto di Maradona, ma Messi è la più grande illuminazione calcistica della mia vita». Ahi. Torniamo ai figli, che «non leggono niente di quello che faccio». Vanno per conto loro. E a Feltri piace così, come gli piace la Roma che si è scelto per vivere. «Ancora giro l’angolo e mi manca il fiato». Come a tutti quelli del Nord, che il cielo blu gli sembra impossibile, ma conservano nel cuore un luogo remoto, che per Feltri è il Santuario di San Patrizio nella val Seriana, dove è nata sua madre. Quel posto gli procura «un’attrazione metafisica», a lui che dice di fondare la propria morale su un «umanesimo laico». Cerca Dio e non esclude di poterlo trovare, ma in qualche angolo che ancora non abbiamo sondato. Il Mattia Feltri che rifugge i moralismi perché «è autoassoluzione». Il giornalista che bada alla forma, perché «il giornalismo che rinuncia alla scrittura rinuncia a farsi grande». Che tratta la propria vicenda come un manuale di filosofia e non ama parlare di sé, concedendoci solo un pezzetto, tra la storia di questo e quell’altro giornale.
«A 36 anni Giulio Anselmi mi ha messo a capo della redazione romana della Stampa. Era duro, non mollava mai la concentrazione. I primissimi anni di mia figlia, appena nata, li ho persi, poi è andata meglio». Prima c’erano stati gli anni «più belli», quelli al Foglio, intorno a quel «totem» che era Giuliano Ferrara. Catapultato dalla provincia al raffinato giornale che si stava fondando, Feltri si sente inadeguato, si mette a studiare, notte e giorno. E Ferrara gli insegna ad andare «dentro le cose». Fino a quando non ce n’è più. E con «dolore» se ne va a Libero, poi finalmente arriva il Buongiorno. «Ho fatto il giornalista perché non me ne fregava niente di fare il giornalista», ripete Feltri. Quindi guarda alle cravatte appese con cura per essere indossate ogni giorno, tranne il venerdì. «Se invidio qualcosa a mio padre? Che sa fare i giornali e io non ci riesco». Ma mica è vero, Mattia.