La pubblicazione sul Corriere della Sera de "I professionisti dell'antimafia" scatenò l’inferno. In un comunicato, l'allora Comitato antimafia di Palermo bollò Leonardo Sciascia come un "quaquaraquà", prendendogli in prestito la definizione, e lo accusò di seminare zizzania nel fronte degli avversari di Cosa Nostra. I soliti detrattori gli rimproverarono di cantare nei suoi libri l'epopea della mafia, in un certo senso di mitizzarla. Qualcuno insinuò che della mafia Sciascia avesse una conoscenza intima, quasi "familiare", adombrando pericolose collusioni. Ancora oggi, c'è chi lo accusa di aver oltraggiato Paolo Borsellino. Nessuno, però, si sforzò di leggere tra le righe.

Nell'articolo, Sciascia aveva approfittato per recensire il libro dello storico inglese Christopher Duggan, il quale aveva esplorato il rapporto tra fascismo e antimafia. In particolare, raccontava la parabola di Cesare Mori, il "prefetto di ferro" del ventennio fascista. Raffinando la sua tesi, Sciascia inseriva il contrasto di Mori alla mafia nel quadro più ampio delle lotte interne al partito fascista. In Sicilia e in tutto il Paese, sosteneva, la vita del fascismo fu caratterizzata dalla dialettica, prima aspra e poi via via più sfumata, tra un'ala conservatrice tutta ordine e disciplina, di cui Mori faceva parte, e un'ala rivoluzionaria di ascendenza socialista.

Il contrasto di Mori alla mafia, condotto con strumenti eccezionali e senza alcuno scrupolo, salutato dall'opinione pubblica con straordinario favore, servì all'ala conservatrice per conquistare definitivamente la supremazia nel partito e imprimere la sua forma sul regime. Da questa vicenda, Sciascia ha fatto esplicitamente intendere come una certa antimafia, adoperata con abilità e spregiudicatezza, possa diventare un formidabile strumento di potere, perdendo il suo scopo primario e arrivando addirittura a non rispettare le regole. Ed ecco perché citò Paolo Borsellino, usandolo come esempio: il CSM lo nominò Procuratore della Repubblica di Marsala non rispettando il criterio dell'anzianità.

Sciascia fece questo esempio non entrando nel merito di Borsellino, né mettendo in discussione la sua persona, ma per avvertire che senza un criterio certo, il potere della magistratura può usare diversi parametri a seconda della propria convenienza. Infatti, come sappiamo, tale arbitrio è stato poi utilizzato per far fuori Giovanni Falcone, quando il CSM questa volta decise di usare il criterio di anzianità.

Lo stesso Falcone, in un'intervista a Luca Rossi, dirà: «L'antimafia è stata più parlata che agita. Per me, invece, meno si parla, meglio è. Ne ho i coglioni pieni di gente che giostra con il mio culo. La molla che comprime, la differenza: lo dicono loro, non io. Non siamo un'epopea, non siamo superuomini e altri lo sono molto meno di me. Sciascia aveva perfettamente ragione: non mi riferisco agli esempi che faceva in concreto, ma più in generale».