Un punto a favore lo hanno sicuramente segnato il procuratore aggiunto Tiziana Siciliano e il pm Luca Gaglio, dopo che la sesta sezione della Cassazione ha annullato con rinvio alla corte d’appello di Milano il processo a Silvio Berlusconi, detto “Ruby ter. Quello in cui lui è stato assolto dal reato di corruzione in atti giudiziari, e con lui anche gli altri imputati, comprese le ventidue “ragazze” accusate di aver giurato il falso nei processi precedenti quando erano state chiamate a deporre nelle vesti di testimoni, e quindi di pubblici ufficiali, mentre la stessa procura le stava già indagando. Una grave violazione delle regole, come riconosciuto anche dal pg della Cassazione Roberto Aniello, che ha reso “illegittime” quelle deposizioni. E inutile quel processo che, come ha detto e scritto Marco Tremolada, il presidente del tribunale che lo ha raso al suolo, non avrebbe neppure mai dovuto cominciare.

Ma faceva parte del “rito ambrosiano” il dover continuare all’infinito a processare Silvio Berlusconi. Il quale, considerando tutti i processi di filiazione dal ceppo del caso Ruby, è stato assolto cinque volte per quello stesso fatto. Ed è morto un anno fa, proprio a ridosso della pubblicazione delle motivazioni della sentenza del “Ruby ter” che aveva demolito l’ipotesi dell’accusa. Così la procura, dove nel frattempo si era insediato il nuovo capo, Marcello Viola, che non dava segnali di particolare continuità con il “rito ambrosiano” che aveva dominato per trent’anni il quarto piano del palazzo di giustizia, si era ritrovata con un bel dilemma. Prima di tutto perché veniva privata del boccone grosso, quel Silvio Berlusconi che, dal momento del suo ingresso in politica, e prima ancora della vittoria di Forza Italia del 1994, già nelle dichiarazioni di Saverio Borrelli, era stato adocchiato e inseguito come possibile autore di ogni malefatta.

Ma un altro problema si era affacciato negli ultimi anni a Milano, i rapporti complicati degli uffici che si erano riempiti di gloria ai tempi di Mani Pulite e i colleghi di rango superiore della procura generale. Il caso Eni è stato il più clamoroso. Prima il procuratore generale Francesca Nanni aveva rifiutato l’offerta del pm Fabio De Pasquale di poter rivestire il ruolo del pubblico accusatore in aula anche nel processo d’appello. Poi addirittura la pg incaricata, Celestina Gravina, aveva rinunciato al giudizio, con parole severe nei confronti di chi quell’inchiesta e quel processo senza prove aveva voluto. Con tutta la coda bresciana del processo che ha condannato Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro alla pena di otto mesi per rifiuto di atti d’ufficio. Stessa storia si era vista in un altro caso, meno clamoroso ma non meno grave, quello che aveva visto imputato di corruzione l’ex gip milanese Andrea Paladino, assolto. Altro ricorso della procura, presentato dall’aggiunta Laura Pedio, e di nuovo rinuncia di un’altra pg, Gemma Gualdi. Insomma, due visioni e due modalità diverse di applicare le regole del codice di procedura penale. Il fine che giustifica il mezzo al quarto piano, garanzie nel rigore delle regole, al terzo.

Così, un po’ perché Berlusconi non c’era più, un po’ per la difficoltà di rapporti con la procura generale, un po’ anche e soprattutto perché il tribunale presieduto da Marco Tremolada con la sentenza delle assoluzioni aveva anche impartito una bella lezione di diritto e osservanza delle regole, Tiziana Siciliano, procuratore aggiunto e responsabile del settore dei reati contro la pubblica amministrazione e il pm Luca Gaglio avevano optato per un tipo di ricorso inusuale, quello definito “per saltum”, perché scavalca il processo d’appello e si rivolge direttamente alla Cassazione. Con poche speranze, sembrava, anche perché gli atti illegittimi c’erano stati. Era vero e dimostrato che le 22 “ragazze” erano già sottoposte a indagini, quanto erano state chiamate a testimoniare. Perché Berlusconi le stava aiutando economicamente, pur se in modo palese e ufficiale, con regolari versamenti mensili sui loro conti correnti, motivati come risarcimento per i danni professionali che la pubblicità negativa del processo aveva loro provocato. Un tentativo riuscito di corruzione, avevano invece ipotizzato i pm, e l’inchiesta era già patita quando le “ragazze”, a partire da Karima El Farhoug, erano state chiamate a testimoniare, nel processo “Ruby uno” e nel “Ruby due”, da cui il principale imputato era uscito assolto. Ma non avrebbero mai dovuto esser trattate da pubblici ufficiali, senza tutela del difensore e con l’obbligo a dire la verità, e questo è assodato. Erano indagate in un procedimento connesso. Ma la pervicacia, l’ostinazione, l’istinto persecutorio secondo alcuni, degli uomini e delle donne della procura di Milano sono storicamente noti. Restava solo un ultimo interrogativo da affrontare, prima della decisione, l’incognita del nuovo procuratore Marcello Viola, a Milano da un anno e politicamente non omogeneo alla saga di Magistratura democratica di Borrelli, D’Ambrosio, Bruti Liberati e Greco, quelli che avevano inventato e praticato il “rito ambrosiano”. Non fu facile, e infatti non lo convinsero. Il ricorso fu presentato, ma senza la sua firma. E non solo perché era un caso ereditato.

Quel che è successo in Cassazione è stato una sorpresa. Perché il pg Roberto Aniello, pur definendo «illegittima» la scelta dei pm milanesi di interrogare le “ragazze” come testimoni, ha sostenuto che «ciò non incide sulla sussistenza del reato di corruzione in atti giudiziari», entrando quindi nel merito del processo. Altra sorpresa è arrivata dalla sesta sezione presieduta da Giorgio Fidelbo, magistrato di solida reputazione proprio sul piano delle procedure, sulla base delle quali aveva demolito definitivamente il famoso “processo trattativa” tra Stato e mafia, che a quanto pare ha fatto propria la tesi del pg e ha disposto l’annullamento del processo di primo grado con le sue assoluzioni, la prescrizione per il reato di falsa testimonianza e il rinvio, sulla base dell’articolo 569 quarto comma del codice di procedura penale, alla corte d’appello di Milano per il reato di corruzione in atti giudiziari. Chissà se i pm Siciliano e Gaglio decideranno di chiedere, come già il loro predecessore De Pasquale, di stare ancora in aula a rappresentare l’accusa. E vedremo come andrà a finire. Intanto bisognerà aspettare le motivazioni della sentenza della Cassazione. Ma una cosa è certa, i processi a Silvio Berlusconi non finiscono mai. Perché è chiaro che quel giorno del nuovo processo, sul banco degli imputati ci sarà ancora lui, e di lui continueranno a parlare i suoi accusatori. A vita e post mortem. Per saltum.