Sono le 19 quando si fa il bilancio delle dichiarazioni alle agenzie: almeno una quarantina, a poche ore dalla notizia delle motivazioni con cui la Corte d’assise di Modena ha deciso di condannare a trent’anni anziché all’ergastolo Salvatore Montefusco, il 73enne che il 13 giugno del 2022 uccise a fucilate la moglie Gabriela Trandafir e la figlia di lei Renata, a Cavazzona, frazione di Castelfranco Emilia.

Una lunga sequenza di espressioni indignate, provenienti non solo dall’avvocata che rappresenta i familiari delle vittime, Barbara Iannuccelli, secondo la quale le parole dei magistrati «legittimano gli uomini, se vivono una situazione conflittuale, a eliminare il problema a colpi di fucile». Intervengono parlamentari ed esponenti politici di tutti gli schieramenti: duri attacchi, giudizi sconcertati nei confronti del collegio modenese che, per citare Maria Elena Boschi di Italia Viva, «ci porta indietro di decenni, cancellando i progressi ottenuti con le battaglie delle donne nelle istituzioni e nella società».

Pesa soprattutto un passaggio delle motivazioni, depositate l’8 gennaio scorso: la “comprensibilità umana dei motivi che hanno spinto l’autore a commettere il fatto reato”. Nelle tante reazioni, colpisce, in positivo, che nessuno si sia scagliato contro la presidente della Corte d’assise Ester Russo, che ha redatto materialmente la sentenza, per il fatto stesso di essere donna. Di solito avviene sui social con le avvocate che difendono le persone accusate di violenza sessuale. Almeno è risparmiata l’aggressione alla giudice.

Ma certo quella parola, quell’aggettivo, “umana”, associato alla asserita “comprensibilità” del movente, fa la differenza. “Umano” è termine che richiama pietà, empatia, riconoscimento della condizione penosa dell’altro. E poi c’è il concetto: “Arrivato incensurato a 70 anni”, Montefusco “non avrebbe mai perpetrato delitti di così rilevante gravità se non spinto dalle nefaste dinamiche familiari che si erano col tempo innescate”. Il duplice femminicidio si radicherebbe nella “condizione psicologica di profondo disagio, umiliazione ed enorme frustrazione vissuta dall’imputato, a cagione del clima di altissima conflittualità che si era venuto a creare nell’ambito del menage coniugale e della concreta evenienza che lui stesso dovesse abbandonare l’abitazione familiare, e con essa anche controllo e cura del figlio”.

E fin qui forse non scatta ancora la reazione. Come pure a fronte del passaggio in cui si considera “plausibile” che l’intimazione di lasciare la casa rivolta dalla vittima Renata al marito assassino Salvatore abbia determinato nel reo, “come dallo stesso più volte sottolineato, quel black-out emozionale ed esistenziale che lo avrebbe condotto a correre a prendere l’arma”. Da qui la concessione delle attenuanti generiche e la loro equiparazione alle aggravanti, da qui i 30 anni di carcere anziché l’ergastolo chiesto dalla Procura di Modena.

Pesano, anche, la “confessione”, la sostanziale incensuratezza, il contegno processuale “corretto” e, considerazione che diventa dirompente sul piano mediatico, “la situazione che si era creata nell’ambiente familiare e che lo ha indotto a compiere il tragico gesto”. È una sentenza destinata non solo all’impugnazione in appello, ma soprattutto a generare discussioni per anni di qui a venire.

E d’altra parte il caso esemplifica nel modo più netto la potenza della mediatizzazione giudiziaria. Le frasi proposte dalle agenzie di stampa nelle loro prime sintesi diventano le uniche rilevanti. Ce ne sono, nelle motivazioni, altre che per certi aspetti farebbero persino più impressione, sganciate dal tecnicismo che pur deve informare una condanna per omicidio.

Ad esempio, e sempre nella parte in cui la Corte d’assise giustifica la concessione delle “generiche”, il passaggio relativo “all’efficacia determinante che ha rivestito il contegno delle due vittime nella formazione della volontà omicida del predetto”. Forse anche più pesante, dal punto di vista del lettore non giurista. Si esclude una vera e propria “provocazione” del duplice delitto, invocata dalla difesa di Montefusco. E si legge che la reazione dell’allora 70enne alle parole ritenute scatenanti, “devi andartene da questa casa”, sia stata “aberrante”.

Difficile davvero non riconoscere l’inappropriatezza di quell’aggettivo, “umana”. Difficile resistere alla tentazione di dire che il magistrato, nel redigere le motivazioni di una condanna per omicidio, debba sforzarsi non solo di indicare i “motivi a delinquere del reo”, come impone l’articolo 133 del codice penale; che debba non solo sforzarsi di svolgere un’indagine psicologica su quei “motivi”, sforzo abnorme, che richiede una formazione continuamente aggiornata in materia di analisi del comportamento; che insomma il giudice non può evidentemente limitarsi a cercare le parole tecnicamente più adatte a sorreggere l’analisi sulla condotta del colpevole, ma che dovrebbe comprendere a propria volta anche la delicatezza delle parole di una sentenza al cospetto dell’opinione pubblica.

Pochi casi più di quello del femminicidio commesso da Salvatore Montefusco il 13 giugno 2022 dimostrano quanto sarebbe utile al magistrato che estende una sentenza una migliore consapevolezza delle conseguenze mediatiche prodotte dalle proprie parole, prima ancora che dalle proprie decisioni.

Può darsi che le espressioni dell’autrice della sentenza di Modena siano non solo infelici, ma anche incoerenti, e che il giudice di secondo grado modifichi la decisione. Ma resta il peso di cui la magistratura deve sapersi far carico nei processi che riguardano la violenza di genere. I messaggi che arrivano all’esterno, come dice l’avvocata Iannuccelli, possono essere devastanti. Al di là dell’intenzione di chi scrive le motivazioni di una condanna per omicidio.