La giustizia riparativa è un istituto molto coraggioso, complementare al procedimento vero e proprio. L’avvocata Diletta Stendardi, che opera anche come mediatrice penale, ripercorre le tappe fondamentali che hanno portato alla creazione della giustizia ripartiva e al suo ingresso nel nostro sistema giudiziario. «Badiamo bene – dice al Dubbio Stendardi -, il coraggio è cosa diversa dalla sconsideratezza. La traversata va compiuta con la necessaria preparazione e con la bussola dei principi fondamentali e delle garanzie previsti dagli atti sovranazionali, così come dal decreto legislativo 150/2022».

Avvocata Stendardi, l’istituto della giustizia riparativa è tra le novità più importanti degli ultimi anni in ambito penale: in cosa consiste? La Restorative Justice, nata in Nord America da modelli sperimentali nella seconda metà degli anni 70 del secolo scorso e rapidamente diffusasi altrove, è un paradigma di risposta al reato che muove da una lettura relazionale sia del reato che della risposta allo stesso. Il reato è una condotta lesiva nei confronti di persone e di relazioni interpersonali e si propone una risposta che promuova l’attivazione di forme di riparazione a partire dall’incontro e dall’ascolto dei bisogni concreti della vittima. È una rivoluzione copernicana. Senza sostituire il procedimento penale, ma affiancandosi allo stesso ove le parti acconsentano, si crea uno spazio in cui prestare attenzione non già al “Chi è stato? Quanto lo puniamo?”, quanto invece al “Chi è stato leso? Come lo sosteniamo? Cosa può esser fatto per il futuro?”. Del resto, quando siamo colpiti da una ingiustizia, anche nella sfera privata, non è questo che cerchiamo? L’attenzione va a bisogni e responsabilità dei singoli e della comunità, con obiettivi di reintegrazione delle parti, ricostruzione del rispetto dei beni offesi e maggiore sicurezza sociale.

Abbiamo assistito ad una evoluzione negli ultimi anni?

Dagli anni 90 in avanti, Nazioni Unite, Consiglio d’Europa e Unione Europea hanno elaborato atti internazionali in materia, individuando caratteristiche qualificanti e principi fondamentali della giustizia riparativa.

Quali?

Partiamo dalla proposta di un incontro tra i soggetti direttamente o indirettamente coinvolti nella vicenda. E ancora: la necessaria volontarietà della partecipazione all’incontro, la presenza di un mediatore-facilitatore dell’incontro, appositamente formato, terzo e imparziale, lo svolgimento nell’interesse di tutte le parti coinvolte, sul piano della pari dignità. Fino ad arrivare alla confidenzialità dei contenuti dell’incontro e il divieto di utilizzo in malam partem di quanto dichiarato in quel contesto a all’adempimento volontario degli impegni eventualmente concordati. Lo specifico della giustizia riparativa consiste in questo metodo, più che nell’esito. Tant’è che l’esito è qualificabile come riparativo, ai sensi delle fonti sovranazionali e del nostro recente decreto legislativo 150/2022, solo se e in quanto risulti da un programma svolto secondo tale metodo e sia idoneo a rappresentare l’avvenuto riconoscimento reciproco e la possibilità di una relazione di ritrovato rispetto della dignità altrui.

Cosa si “ripara” con questo nuovo istituto?

L’evento storico è irreversibile. Nulla sarà più come prima che il fatto accadesse, anche nei casi in cui sia possibile porre rimedio al danno. Si lavora proprio a partire da questa “perdita del prima”, espressione del professor Adolfo Ceretti, ossia dalla perdita della sicurezza personale e interpersonale, del senso delle relazioni con gli altri, della propria precedente prospettiva sul futuro. Si lavora e si scommette sulle relazioni, promuovendo la partecipazione attiva e l’individuazione, nel dialogo mediato, di ciò che le parti ritengano debba essere riparato in conseguenza dell’offesa.

Si recupera uno sguardo sulle persone quali soggetti, interpellati ad attivare capacità, invece che oggetti di indagine, osservazione, trattamento, incapacitazione. La riparazione è qui un’azione positiva con valenza più pregnante del risarcimento del danno, individuata consensualmente nell’incontro con l’altro, non imposta coercitivamente da terzi. La Restorative Justice è, essenzialmente, la giustizia dell’incontro. È la giustizia della riparazione solo e nella misura in cui la riparazione generi consensualmente da un incontro volontario.

La giustizia riparativa fa il suo corso in maniera parallela al procedimento penale? Si pone come complementare al procedimento penale. Non può essere prescritta. È un percorso che viene proposto alle parti o, come spesso è accaduto, cercato autonomamente dalle parti, e che non si sostituisce al procedimento, al quale nulla toglie. Offre la possibilità di lavorare su aspetti di cui il procedimento non può occuparsi, se le parti lo ritengono utile e con l’aiuto dei mediatori.

È eloquente il fatto che ovunque nel mondo i primi capitoli della storia della giustizia riparativa non sono stati scritti dal legislatore né dalle istituzioni, ma da iniziative sorte dal basso, dall’interesse e dalla passione di operatori, studiosi, magistrati, assistenti sociali, criminologi e avvocati che hanno trovato in questo paradigma la possibilità di dare ascolto e voce a vissuti, bisogni e domande portati dalle persone. In Italia, le prime esperienze sono state attivate negli ambiti della giustizia minorile e dell’esecuzione penale, che già prevedevano la possibilità di variare la risposta processuale o sanzionatoria a fronte di iniziative costruttive dell’indagato-imputato- condannato.

La Riforma Cartabia è riuscita a dare alla luce una disciplina organica della giustizia riparativa grazie a una sincronia di fattori, tra cui gli impulsi sovranazionali, l’instancabile opera di sensibilizzazione di esperti e accademici, la determinazione dell’allora ministra e, in modo decisivo, le testimonianze di chi ha partecipato a percorsi di giustizia riparativa.

Possiamo definire, alla luce delle sue osservazioni, la giustizia riparativa un istituto molto coraggioso?

Questa è una bellissima domanda. Sì, la giustizia riparativa richiede coraggio. Al tempo stesso, alimenta coraggio. Come cantano i Subsonica, “sono cambiamenti solo se spaventano”. La libertà e la possibilità che possiamo trovare in un nuovo territorio passano sempre attraverso fatica e paura dell’attraversamento del non noto. Occorrono curiosità, intraprendenza, flessibilità, capacità di sostenere la fatica. Non va taciuto il fatto che la regolazione normativa della giustizia riparativa prevista dalla riforma suscita fatiche e resistenze sia tra gli operatori del sistema penale tradizionale che tra gli esperti di Restorative Justice. Altri Paesi prima del nostro hanno sperimentato simili momenti di spaesamento e frizione.

Non è immediata l’integrazione tra la pratica della giustizia riparativa, che vive di attenzione e capacità di adattamento al caso particolare e di volontarietà, e il diritto, che è invece ancorato a regole generali e astratte e al possibile intervento coercitivo dell’autorità. Ma è una traversata che merita di essere intrapresa: ce lo indicano i riscontri empirici della possibile efficacia di questi percorsi in termini di prevenzione, beneficio per le vittime di reato e consolidamento dei legami sociali e, anzitutto, la piena consonanza tra i principi della giustizia riparativa e i valori democratici e costituzionali.

Il coraggio è cosa diversa dalla sconsideratezza. La traversata va compiuta con la necessaria preparazione e con la bussola dei principi fondamentali e delle garanzie previsti dagli atti sovranazionali così come dal decreto legislativo 150/2022, che rendono sicura e potenzialmente fertile la convivenza tra giustizia riparativa e procedimento penale. Mi faccia aggiungere, però, un’altra cosa a tal riguardo.

Dica pure…

Per quanto riguarda il coraggio, grande, delle persone che scelgono di partecipare a un programma di giustizia riparativa, è importante precisare che il consenso all’avvio del programma, sempre revocabile, non presuppone o implica un desiderio di pacificazione. Le esperienze maturate, infatti, hanno visto chi ha subito un reato approdare alla giustizia riparativa nella ricerca di emancipazione e di luoghi in cui poter esprimere dolore e rabbia, chiedere rispetto, porre le conseguenze dannose dell’offesa di fronte a chi ha contribuito a cagionarle, invocare risposte responsabili. E chi è stato indicato come autore di un’offesa sceglie di partecipare a questi programmi per spiegare la propria versione dei fatti o per non essere ridotto alla propria azione o, ancora, per condividere e proseguire una riflessione sui danni causati e attivare le proprie capacità di riparazione, anche eventualmente per chiedere una modulazione della risposta sanzionatoria.

Come viene valorizzato il lavoro dell’avvocato nell’ambito di questo nuovo istituto?

In molti modi. L’avvocato è chiamato a spiegare ai propri assistiti cos’è e come è disciplinata la giustizia riparativa, dal momento che questa è richiamata in tutte le informative che, per le modifiche apportate dalla riforma al codice di procedura penale, l’autorità è ora tenuta a fornire ad ogni snodo del procedimento. A prescindere dalle iniziative dell’autorità giudiziaria, l’avvocato può rappresentare autonomamente ai propri assistiti la facoltà di accesso a questi programmi, per valutare insieme a loro se vi possa essere interesse a proporne l’avvio, considerando il possibile riflesso sul procedimento, sulla quantificazione della pena o sulla sua esecuzione, ma non solo.

Nei nostri studi professionali ascoltiamo spesso sentimenti di ingiustizia e bisogni di riparazione che non possono essere ospitati nel procedimento penale e potremmo valutare lo spazio sicuro e protetto della giustizia riparativa come occasione per il nostro assistito per “andare oltre ed essere altro” rispetto all’offesa subita o inferta, comprendere nel dialogo cosa e perché è accaduto e cosa ne è derivato, partecipare alla ricerca di un nuovo equilibrio.

Vi è anche una sorta di esigenza di controllo da parte del professionista?

L’avvocato è chiamato a difendere la corretta applicazione delle nuove norme e contrastare eventuali prassi scorrette che, ad esempio, calpestino le garanzie di riservatezza e inutilizzabilità di cui si è detto o che forzino la prestazione del consenso alla partecipazione ai programmi di giustizia riparativa. Evidenzio che il d.lgs. 150 ha affidato ai mediatori il compito di raccogliere il consenso nel primo incontro con ciascuna parte.

La decisione di partecipare o meno al programma non viene prestata innanzi all’autorità giudiziaria, che si limita a inviare il caso al centro per la giustizia riparativa per una valutazione di fattibilità che verrà svolta dai mediatori, i quali poi riferiranno poi unicamente se e quale programma ha potuto essere svolto, senza riferire se il mancato svolgimento del programma o il mancato raggiungimento di un esito riparativo sia dipeso dal diniego di una delle parti o da altri elementi, ferma restando la preclusione di effetti sfavorevoli per la persona indicata come autore dell’offesa.

La persona indicata come autore è così tutelata rispetto al rischio che un suo eventuale diniego possa essere valutato a suo sfavore nel procedimento ed evita un’interlocuzione diretta con l’autorità giudiziaria sul punto, che potrebbe minare la sua piena libertà di scelta.