E vediamo. Vediamo se il governo riuscirà a spiegare la follia dei beni sequestrati agli innocenti. Dovrà farlo. Perché Roberto Giachetti, deputato di Italia viva, segretario di Presidenza a Montecitorio, vero e coraggioso erede delle battaglie pannelliane (è iscritto anche a Partito radicale e Nessuno tocchi Caino) ha rivolto all’Esecutivo, lo scorso 17 gennaio, un’interrogazione parlamentare chiarissima e “disarmante” in materia di prevenzione antimafia.

Fra i quesiti trasmessi alla Presidenza del Consiglio, oltre che ai ministeri della Giustizia e delle Imprese, ce n’è uno a cui è semplice rispondere, ma che rischia di rivelare in modo spietato il grado di barbarie raggiunto dalle “misure di prevenzione”: quante sono le aziende confiscate (dunque sottratte “in via definitiva” ai legittimi proprietari) dai giudici e poi restituite (in seguito a istanza di revoca) ai malcapitati nel frattempo assolti, nel processo penale vero e proprio, dalle accuse di 416 bis. In altre parole: quanti sono gli innocenti ai quali i magistrati, dunque lo Stato, hanno portato via tutto.

Certo, la domanda è semplice per chi conosca il delirio della prevenzione antimafia. Provoca invece un comprensibilissimo mal di testa al profano. Il quale si chiederà come sia mai possibile confiscare beni, aziende, e anche le proprietà personali come l’abitazione in cui si vive, a chi sia stato sì accusato, da un pm, di contiguità ai boss, ma che non sia stato ancora condannato in via definitiva. Più banalmente: com’è possibile che la legge consenta di infliggere una confisca definitiva a un presunto innocente?

Domanda legittima, sacrosanta. Ma chi non è profano sa: il “procedimento di prevenzione” previsto dal Codice antimafia (tecnicamente il decreto legislativo 159 del 2011, come ricorda Giachetti all’inizio della propria interrogazione) può essere attivato “anche indipendentemente dall’esercizio dell’azione penale”. Si può essere spogliati di tutto semplicemente perché un pentito dice che sei organico alla sua cosca, anche se non si è ancora concluso il processo penale vero e proprio in seguito al quale si scoprirà che le parole di quel pentito erano falsità propalate per ottenere un programma di protezione; o anche se il pm ha travisato il senso delle parole carpite a qualche mafioso in un’intercettazione. Così è.

Ora, queste follie, abnormità, per dirla tutta questa barbarie legalizzata è esattamente il cuore del ricorso (il 29614/ 16) che le più “celebri” tra le vittime del tritacarne antimafia, i fratelli Cavallotti, hanno proposto alla Corte europea dei Diritti dell’Uomo. Dai giudici di Strasburgo che già nelle domande “interprocessuali” rivolte allo Stato italiano hanno lasciato trapelare loro stessi una certa incredulità, potrebbe arrivare a breve una sentenza capace di stroncare almeno parte delle norme sulla prevenzione antimafia.

Ma intanto i fratelli Cavallotti sono rimasti schiacciati da una versione se possibile “hard” del Codice del 2011: come ricorda infatti sempre Giachetti nel proprio atto – a cui, per scelta dell’Esecutivo, risponderà il ministero della Giustizia – «la giurisprudenza di legittimità ritiene che al procedimento di prevenzione non si applichino le garanzie penali e i principi del giusto processo, e consente la possibilità, non prevista espressamente dalla legge, di disporre la confisca nei confronti di soggetti assolti dal reato di associazione mafiosa».

I più fortunati (più fortunati dei fratelli Cavallotti, ma il superlativo relativo nasconde un atroce paradosso), dopo l’assoluzione hanno potuto proporre, in base all’articolo 28 del Codice, “revocazione della confisca definitiva” in quanto questa era stata smentita da “una sentenza di assoluzione”. Ma inesorabilmente, tutte le vittime di questo sistema- Attila hanno ritrovato le loro aziende fallite, svuotate di ogni bene e stracariche di debiti, contratti dagli amministratori giudiziari che non avevano badato a spese nel drenare, dalle imprese loro affidate, compensi spesso milionari.

Ci sarebbe poco da aggiungere, a fronte di tanta ferocia sanguinaria ( dello Stato), se non la formulazione testuale di quella domanda posta da Giachetti: il governo fornisca “dati puntuali relativi a quante aziende siano state confiscate nell’ambito di procedimenti di prevenzione in danno di soggetti che: a) sono stati definitivamente assolti dal reato di associazione mafiosa; b) non sono mai stati indagati per fatti di mafia; c) dopo essere stati indagati, hanno ottenuto l’archiviazione del procedimento penale”. Sì, sarà il caso che lo Stato parli. Altrimenti rischia di procurarsi una condanna per violazione dei diritti umani più rapida di quella auspicabile per il caso Cavallotti.