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Esterno del Palazzo della Consulta
Questione complessa, domanda semplice: per accedere al suicidio assistito è necessario dipendere da un macchinario? Meglio: in presenza di una patologia irreversibile, la nostra scelta di vivere o morire, liberamente formatasi, può essere valutata in base alla dipendenza da un trattamento di sostegno vitale inteso esclusivamente come macchinario?
La risposta è interamente nelle mani della Consulta, che ancora una volta si esprime sul fine vita dopo la storica sentenza 242 del 2019, la cosiddetta Antoniani/Cappato sul caso Dj Fabo, che regola la materia nel silenzio del legislatore sul tema.
Il verdetto della Corte non arriverà prima di qualche settimana, secondo le indiscrezioni che si rincorrono dopo l’udienza pubblica di oggi. Che a Palazzo della Consulta ha delineato un quadro già chiaro a metà pomeriggio: da una parte c’è il collegio difensivo che assiste Marco Cappato, Felicetta Maltese e Chiara Lalli - i quali rischiano il processo per aver accompagnato in Svizzera Massimiliano, malato di sclerosi multipla morto in una clinica nel 2022 - dall’altra l’Avvocatura dello Stato, che in rappresentanza della presidenza del Consiglio chiede di dichiarare la questione di legittimità inammissibile o infondata.
A sollevarla, lo scorso gennaio, è stata la gip di Firenze Agnese De Girolamo. La quale ha chiesto il vaglio di costituzionalità dell’articolo 580 del codice penale (istigazione o aiuto al suicidio), così come modificato dalla sentenza 242, nella parte in cui subordina la non punibilità dei soggetti coinvolti al requisito del sostegno vitale. Ovvero uno dei quattro paletti stabiliti dai giudici per l’accesso al suicidio assistito. Gli altri tre prevedono che la richiesta arrivi da un malato affetto da una patologia irreversibile che sia capace di autodeterminarsi e che reputi le proprie sofferenze fisiche o psicologiche intollerabili.
Il procedimento riguarda i tre indagati, Cappato, Lalli e Maltese, che si sono autodenunciati al loro rientro in Italia: per la gip la richiesta di archiviazione avanzata dalla procura (per ora) non può essere accolta. Il nodo riguarda invece la condizione di alcuni pazienti, che pur non dipendendo da un “macchinario”, come quello per la ventilazione meccanica, necessitano di molte altre cose per sopravvivere.
«Oggi non è in discussione il diritto a morire, ma la discriminazione esistente tra i diversi malati in tema di suicidio assistito», spiega in udienza l’avvocata Filomena Gallo. Per la quale anche «l’assistenza continua è un sostegno vitale: la Corte è chiamata a pronunciarsi nuovamente sul diritto a congedarsi dalla vita, in assenza di una disciplina legislativa. Si tratta di casi di malattie degenerative e incurabili: non stiamo chiedendo che la cintura di protezione della vita diventi evanescente, ma di definire l'area di non punibilità» del suicidio assistito. Diverso il parere dell’Avvocatura dello Stato, che si oppone all’ampliamento della non punibilità, perché equivarrebbe a una «liberalizzazione» del suicidio assistito, mentre bisognerebbe potenziare le cure palliative.
«Massimiliano chiedeva soltanto di non soffrire e di poter morire a casa sua. Dovremmo ricordarci che la realtà è questa: un incidente o l’effetto di una malattia possono essere inevitabili, ciò che possiamo evitare è aggiungere un carico di ingiustizia», chiosa Lalli. Che come gli altri due indagati rischia da 5 a 12 anni di carcere. Il loro destino, e quello di molti altri, è nelle mani dei giudici. Che ancora una volta dovranno “sostituirsi” al legislatore allargando o registrando le maglie di un diritto considerato già fragile.