Ci sono voluti quasi vent'anni di travagli giudiziari, sempre chiusi con assoluzioni definitive, affinché l’ex comandante del ROS Mario Mori potesse tornare a parlare davanti a una Commissione parlamentare antimafia. È successo oggi, per la prima volta, nella sede presieduta da Chiara Colosimo. Con lui c’è anche Giuseppe De Donno, ex ROS anche lui, per il quale si tratta di un ritorno: l'ultima audizione risale infatti al 1993, quando, da investigatore, aveva spiegato come la mafia condizionasse il sistema degli appalti pubblici.

Allora, la politica lo ascoltava compatta. Oggi, però, il quadro è ben diverso. La scena è polarizzata, frammentata, ideologizzata. Le accuse lanciate da un certo settore della magistratura palermitana a partire dalla fine degli anni Novanta hanno avuto un peso e chi un tempo era in prima linea nelle indagini è stato trasformato, nell’immaginario collettivo e mediatico, in una figura opaca, talvolta losca.

È Mori a prendere la parola. «Il 22 settembre 1986 – ricorda – assunsi il comando del Gruppo Carabinieri Palermo 1°. Era la mia prima volta in Sicilia». Dopo una carriera nell’Arma, compreso il Nucleo Speciale di Dalla Chiesa, si capiva che per combattere la criminalità organizzata non bastava inseguire i singoli reati, ma occorreva studiarne la struttura, la logica, l’economia. «A Palermo trovai altro: un’attività frammentata, senza strategia», afferma. L’azione immediata, seppur d’impatto, mancava di visione.

Eppure, il 6 maggio 1987, i suoi uomini arrestarono Francesco Madonia e due figli, condannati a più ergastoli – un successo che però non svelò le dinamiche interne di Cosa nostra. Mori capì che la mafia non teme l’arresto dei suoi esponenti – sono sempre rimpiazzabili – ma teme che si scavi nei suoi legami esterni, in particolare negli appalti pubblici, il vero motore del potere mafioso. «Il pizzo rende poco. È nel condizionamento degli appalti che la mafia costruisce il suo impero», sottolinea. Ed è su questo fronte, metodo poi abbracciato con convinzione da Giovanni Falcone, che decise di attivare un nucleo speciale, al di fuori degli schemi tradizionali.

Dopo Mori, interviene De Donno e ricostruisce l’indagine del 1989 condotta con il magistrato Di Pisa sugli appalti truccati a Palermo, con Ciancimino e Lima ai vertici del sistema. Una lettera trovata nella cassaforte del sindaco Orlando, firmata dall’Alto Commissario Antimafia, segnala il coinvolgimento di Ciancimino. Orlando non sa spiegare e viene indagato. Anche Falcone conosce bene la vicenda: nel ’91 la cita al CSM per difendersi da accuse dello stesso Orlando. Ma l’inchiesta si arena: arresti, lettere anonime, un’indagine che coinvolge Di Pisa, poi assolto, ma estromesso. Tutto si ferma lì.

De Donno, sempre davanti alla Commissione Antimafia, prosegue ripercorrendo passo dopo passo la genesi e lo sviluppo dell’inchiesta “Mafia appalti”, ricostruendo anche le frizioni – mai risolte – tra i Carabinieri del ROS e la Procura di Palermo. Il 20 febbraio 1991, il ROS consegna a Falcone il dossier da 877 pagine, corredato da centinaia di allegati. È una sintesi poderosa delle prime risultanze investigative sugli appalti pubblici in Sicilia, firmata proprio da De Donno. «Falcone ci aveva sollecitato più volte il deposito – racconta l’ ex ufficiale – perché temeva che, una volta trasferito al Ministero, l’inchiesta potesse essere messa da parte». E infatti, appena ricevuto il dossier, Falcone lo trasmette al procuratore Giammanco. Poi parte per Roma. Da lì in avanti, tutto si complica.

Già prima della consegna ufficiale del dossier, De Donno aveva trasmesso a Falcone e ai pm Pignatone e Lo Forte alcune annotazioni in cui si ipotizzavano responsabilità di politici. Ma da Palermo, secondo lui, non arrivò mai alcuna delega. Il 9 luglio 1991 scattarono i primi arresti, tra cui Angelo Siino, ma la Procura – denuncia De Donno – agì senza informare il ROS e consegnò l’intero dossier alle difese, rendendo pubbliche informazioni riservate. Da quel momento, lo scontro tra magistrati e carabinieri si fece insanabile. Il 20 luglio, un articolo del Corriere della Sera rese pubblici i contrasti. Pochi giorni dopo, Giammanco smembrò l’inchiesta, inviando i fascicoli alle Procure dell’isola: l’indagine unitaria era finita.

Falcone reagisce: affida alla giornalista Liana Milella alcuni appunti che diventeranno i suoi “diari” e incarica De Donno di informare il presidente dell’Antimafia Chiaromonte sull’intera indagine. In uno di quegli scritti, pubblicati dal Sole 24 Ore, accusa Giammanco di aver cercato di bloccare l’inchiesta sugli appalti, su pressione – scrive – di «qualche uomo politico».

Nel frattempo, da Massa Carrara arriva alla Procura di Palermo un’informativa su alcune società legate all’imprenditore Antonino Buscemi. Gli incroci con le indagini del ROS sono evidenti. Ma nessuno informa i Carabinieri. «Con quella segnalazione potevamo completare il quadro – dice oggi De Donno –. Ma la pratica fu data alla Guardia di Finanza e chiusa in fretta con l’archiviazione».

E alla fine l’archiviazione arriva anche per l’inchiesta madre. Il 13 luglio 1992, gli allora pm Guido Lo Forte e Roberto Scarpinato chiedono l’archiviazione del dossier. Per De Donno, quella richiesta è il sigillo su una lunga operazione di ridimensionamento. E non sarebbe stato l’unico ad annusare che qualcosa non andasse. Borsellino stesso, in quelle settimane, aveva definito la strage di Capaci «stabilizzante» e aveva manifestato l’intenzione di riaprire l’indagine su mafia e appalti. Come se sapesse che lì dentro si nascondesse qualcosa che altri volevano non vedere. Alla prossima audizione, data ancora da stabilire, ci saranno le domande poste dai commissari. Si prevede forte tensione.