Una vicenda giudiziaria destinata a riaccendere il dibattito sulla responsabilità dei magistrati e sulla tenuta delle garanzie nel processo penale. È quella che ruota attorno allo stralcio del procedimento Eni- Nigeria a carico dell’uomo d’affari nigeriano Aliyu Alhaji Abubakar, ancora sotto accusa a Milano per fatti già definiti con due sentenze irrevocabili di assoluzione nei confronti di tutti gli altri coimputati.

A sostenere l’accusa, inaspettatamente, è ancora il pm Fabio De Pasquale, nonostante la sua condanna in primo grado per omissione di atti d’ufficio proprio nel troncone principale del processo e la non conferma nel ruolo di procuratore aggiunto, disposta dal Csm per assenza di imparzialità ed equilibrio e confermata dal Tar. E ora i legali di Abubakar hanno deciso di presentare un esposto per denunciare «l’assurdità» della vicenda.

All’udienza del 9 ottobre 2024, appena un giorno dopo la condanna di De Pasquale a Brescia, a rappresentare la pubblica accusa si è presentata un’altra magistrata, la quale ha anticipato che il fascicolo sarebbe stato riassegnato a un nuovo pubblico ministero. Una prassi data quasi per scontata. Ma il colpo di scena è arrivato l’ 11 aprile 2025, quando, in occasione dell’udienza fissata per le conclusioni, De Pasquale si è ripresentato in aula, lasciando attoniti i difensori di Abubakar, Roberto Rampioni e Carlo Farina. E di fronte alle loro obiezioni il pm avrebbe chiarito che non c’era nessuna necessità di riassegnare il fascicolo, in quanto già affidato a lui.

Proprio per tale motivo Rampioni e Farina hanno presentato un esposto al ministro della Giustizia, al Consiglio superiore della magistratura e ai vertici giudiziari milanesi, denunciando quanto accaduto. Il procedimento a carico di Abubakar costituisce uno stralcio del procedimento penale comunemente noto come “Eni-Nigeria”, scrivono i legali, già definito con ben due sentenze irrevocabili di assoluzione.

Il suo processo è rimasto aperto unicamente per un vizio formale di notifica, che ha impedito l’inclusione nel giudizio originario. «Il capo d’imputazione era identico per tutti gli imputati – e lo è anche per il signor Abubakar – trattandosi di concorrenti nell’unico, medesimo, fatto di reato», sottolineano i difensori. Secondo il Tribunale di Milano, nelle motivazioni della sentenza con la quale ha assolto tutti gli imputati del troncone principale, non vi era prova sufficiente di un accordo corruttivo tra i vertici di Eni/ Shell e i funzionari nigeriani. Neppure l’utilizzo dei fondi da parte di Abubakar è stato ritenuto elemento determinante per provare un reato. Abubakar è stato descritto come una figura centrale nella fase esecutiva del presunto accordo, gestore e distributore di una parte rilevante dei fondi e potenzialmente interlocutore del potere politico nigeriano. Tuttavia, nessuna delle condotte a lui attribuite è stata ritenuta penalmente rilevante nelle sentenze già passate in giudicato. Né esiste prova che quei fondi siano mai giunti a pubblici ufficiali sotto forma di tangente.

La posizione di Abubakar, sostengono i suoi difensori, è «sostanzialmente identica a quella degli altri assolti» e non ci sarebbe alcuna prova che le somme da lui gestite siano giunte ai pubblici ufficiali, né che sia mai esistito un accordo corruttivo, smentito dalle sentenze. Qualunque cosa Abubakar abbia fatto, dunque, è avvenuta su territorio straniero. Dove l’Italia non ha giurisdizione. Ciononostante, De Pasquale ha chiesto una sentenza di condanna a cinque anni di reclusione per Abubakar, reiterando – affermano i legali – le stesse accuse che le sentenze passate avevano già escluso. Un nodo non soltanto giuridico, ma anche istituzionale.

Il magistrato milanese è stato infatti condannato dal Tribunale di Brescia per non aver depositato atti favorevoli alle difese nel corso del procedimento principale, documenti che avrebbero messo in discussione la credibilità del teste chiave, Vincenzo Armanna, già ex manager Eni. Un’omissione che, secondo i giudici, fu un «calcolo consapevole» e una violazione grave del contraddittorio.

Nonostante ciò, scrivono i legali nell’esposto, «neppure nel “nuovo” procedimento, a distanza di tanto tempo e nonostante quanto poi verificatosi, il dottor De Pasquale ha mai depositato quegli atti favorevoli alle difese». Non meno significativa, dal loro punto di vista, è la valutazione del Csm, che ha bocciato la sua conferma a procuratore aggiunto parlando di condotte «oggettivamente connotate da patente gravità». Eppure, De Pasquale non ha ritenuto di fare alcun passo indietro.

«I sottoscritti - conclude l’esposto - si domandano come tutto ciò sia ancora consentito». Una domanda che oggi, inevitabilmente, risuona anche fuori dall’aula di giustizia.