Fabio De Pasquale resta “declassato” al ruolo di sostituto procuratore. Il Tar del Lazio ha infatti respinto il ricorso dell’ex aggiunto di Milano, dopo la non conferma votata dal Csm per l’affaire Eni-Nigeria, chiuso con l’assoluzione di tutti gli imputati. Il magistrato è stato condannato in primo grado, insieme al collega Sergio Spadaro, per aver “nascosto” le prove favorevoli agli imputati nel processo sulla presunta maxi tangente per l'acquisizione in Nigeria del blocco Opl 245.

Secondo i giudici del Tribunale di Brescia si trattò di «un preciso calcolo», ovvero «omettere produzioni che avrebbero (ulteriormente) indebolito l’accusa». Una scelta consapevole - a dire del collegio del Tribunale di Brescia, presieduto da Roberto Spanò, che ha condannato i due magistrati a 8 mesi per omissione d’atti d’ufficio - e che spiega anche «la marginalizzazione lamentata dal dottor (Paolo, ndr) Storari», il pm che aveva fornito ai due colleghi le prove della falsità del teste chiave - l’ex manager Eni Vincenzo Armanna -, con lo scopo, come sottolineato dallo stesso Storari nel corso del dibattimento, di non «rompere le balle a quel processo».

A seguito dell’iscrizione sul registro degli indagati, De Pasquale, all’epoca procuratore aggiunto, era stato bocciato dal Csm, secondo cui non aveva più i “prerequisiti” dell’imparzialità e dell’equilibrio. Un provvedimento più unico che raro, quello di Palazzo Bachelet, che aveva smontato quanto affermato dal Consiglio giudiziario di Milano, che aveva invece promosso il magistrato. Il Csm, che aveva votato la non conferma con 23 voti favorevoli, quelle di De Pasquale erano «condotte oggettivamente connotate da patente gravità», per aver «reiteratamente esercitato la giurisdizione in modo non obiettivo, né equo rispetto alle parti, nonché senza senso della misura e senza moderazione».

De Pasquale aveva tentato di recuperare la poltrona impugnando la decisione del Csm davanti al giudice amministrativo. Secondo il pm, la decisione era viziata da carenza di motivazione, travisamento dei fatti e violazione del contraddittorio. Il Tar, però, ha rigettato tutte le censure, riconoscendo piena legittimità e coerenza logico-giuridica alla decisione del Csm.

Il Tar ha innanzitutto chiarito che la valutazione del Csm si è basata su elementi gravi e oggettivi: «Le valutazioni operate dal Csm - si legge nella decisione - non appaiono né manifestamente irragionevoli né frutto di travisamento, né espressione di un uso distorto del potere discrezionale. Appaiono, piuttosto, fondate su un’articolata e approfondita istruttoria e su un percorso motivazionale coerente e rispettoso dei principi di imparzialità e buon andamento». L’atto principale contestato a De Pasquale riguarda il mancato deposito di documenti che avrebbero potuto minare la credibilità di Vincenzo Armanna, coimputato nel processo Eni-Nigeria e testimone chiave dell’accusa.

Il Tar evidenzia che quei documenti – video, chat, e-mail – erano stati trasmessi da Storari e che «il ricorrente è stato ritenuto responsabile di avere omesso il deposito di una serie di documenti contenenti elementi potenzialmente favorevoli alle difese, idonei a inficiare la credibilità di un coimputato, che aveva reso dichiarazioni etero-accusatorie». La valutazione sulla rilevanza probatoria di questi atti - ha chiarito il giudice amministrativo - non spettava al pm in via esclusiva, ma doveva essere rimessa al contraddittorio processuale. «Il pubblico ministero, nel corso del dibattimento - si legge nella decisione - , non è titolare di un potere discrezionale insindacabile circa la rilevanza degli elementi di prova: tale valutazione è riservata al giudice terzo».

Altro punto delicato riguarda il tentativo di fare estromettere il presidente del collegio, Marco Tremolada, sulla base delle dichiarazioni di Piero Amara poi rivelatesi false. Il Tar richiama qui quanto già evidenziato dal Csm: «Il tentativo di coinvolgere il giudice presidente attraverso dichiarazioni non riscontrate si è tradotto in una condotta grave, tanto più per essere stata posta in essere nel corso del processo e al di fuori dei canali procedurali previsti dalla legge».

De Pasquale e i suoi legali avevano sostenuto che il Csm non avesse adeguatamente considerato il parere favorevole del Consiglio giudiziario, il rapporto del procuratore capo e il parere del Consiglio dell’Ordine degli avvocati. Ma il Tar rigetta anche questa critica: «Il Csm ha esaminato puntualmente i pareri favorevoli espressi in sede consultiva e ne ha esplicitamente valutato il contenuto, ritenendo tuttavia prevalenti le criticità emerse dal comportamento oggetto di contestazione». Nessun vizio nella decisione del Csm, che secondo il Tar ha una motivazione solida.

Un paradosso si fa però strada in questa vicenda: nei giorni scorsi, infatti, lo stesso De Pasquale si è presentato davanti alla gup Tiziana Landoni, per sostenere l’accusa in uno stralcio del processo Eni-Nigeria, pendente da anni a causa di una notifica. Il pm ha richiesto una condanna a 5 anni per Aliyu Abubakar, l’uomo d’affari che avrebbe ricevuto 500 milioni di dollari provenienti dal prezzo pagato da Eni per il blocco Opl 245, i quali successivamente vennero smistati a politici nigeriani. Una richiesta che arriva proprio dallo stesso magistrato che, nello stesso processo, è stato condannato per aver omesso prove cruciali a difesa degli imputati. La sentenza sul caso Abubakar è prevista per il 14 luglio.