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La tesi giudiziaria della Trattativa Stato- mafia è una ricostruzione che ha tentato di riscrivere la storia di un determinato periodo del nostro Paese. Ogni legittima scelta politica, lotta tra correnti all’interno dell’ex Democrazia cristiana, atti amministrativi da parte dell’allora Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria o dell’allora ministero della Giustizia, azioni investigative portate avanti dalle divise, in particolare il reparto speciale dei carabinieri (Ros), viene riletta sotto la lente “trattativista”. Un vero e proprio teorema che prende vari episodi, li decontestualizza, si avanzano sospetti e suggestioni, e li riunisce creando così una narrazione apparentemente scorrevole.
Ma come nasce il teorema al livello giudiziario? Tutto parte da alcune dichiarazioni dei pentiti Giovanni Brusca e Salvatore Cancemi fatte tra gli anni 1994 e 1998. Le date sono importanti, così come i due pentiti. In quel determinato periodo, entrambi, in qualche modo l’uno echeggiava l’altro nelle dichiarazioni. Cancemi, in quegli anni, ha riferito ai magistrati di presunti accordi di Totò Riina con 'persone importanti' che avrebbero garantito l'impunità dalle stragi e interventi a favore di Cosa nostra sulle questioni degli ergastoli, dei processi, dei pentiti e altri gravi problemi che opprimevano la loro organizzazione mafiosa. Cancemi ha associato tali 'persone importanti' ai nomi di Marcello Dell'Utri e Silvio Berlusconi e alla volontà di Riina, addirittura già prima del '92, di servirsi di costoro.
Nel 1996, sopraggiungono le dichiarazioni di Giovanni Brusca nelle quali si cita per la prima volta il” papello” che avrebbe scritto Riina nell'ambito di una 'trattativa' con soggetti appartenenti alle istituzioni, che 'si erano fatti sotto'. Ricordiamo che Brusca era appena stato arrestato e ha deciso subito di collaborare. Nel ’96, rispondendo alle sollecitazioni di chiarimenti degli inquirenti, ha spiegato che i presupposti di quella conversazione tra lui e Riina rendevano evidente che quest’ultimo si riferisse al fatto che qualche politico o appartenente alle istituzioni, intimidito dal livello degli ultimi attentati di Cosa nostra, aveva cercato un contatto con i capi corleonesi per vedere di scendere a patti con loro. Brusca ha spiegato che era altrettanto evidente che Riina avesse risposto a quell'invito inviando il “papello” 'per avere riscontro' (espressione usata da Brusca per chiarire contesto e punto di vista di Riina). Ricorda che, a un certo punto, poiché quella risposta al “papello” tardava, Riina mediante Salvatore Biondino, gli aveva mandato a dire che era necessario dare un altro 'colpetto' per riattivare l'interlocutore.
Attenzione. Poi Brusca avrebbe reso le sue dichiarazioni sulla trattativa col “papello”, reiterandole e aggiornandole nel 1997 e nel 1998 nel contesto delle indagini preliminari e del dibattimento di primo grado a Firenze sulle stragi del continente, e dei processi sulle stragi Falcone e Borsellino. Nel contesto del processo di Firenze si diceva incerto se collocare la data dell'episodio prima della strage di via D'Amelio o dopo. Mentre però davanti alla Corte di Caltanissetta nel procedimento del Borsellino ter, dichiarava che l'affiorare dì altri ricordi gli aveva consentito di inserirlo tra le due stragi, prima cioè della strage in cui era rimasto ucciso Borsellino. Una memoria che cambia, oscilla fin dai primi momenti e nei contesti nei quali si trovava.
Bisogna precisare che Giovanni Brusca ha dato un ottimo contribuito alla giustizia per tutto ciò di cui era protagonista (pensiamo alla strage di Capaci) e testimone diretto. Ma nel passato ha anche riferito episodi che non sono stati ritenuti veritieri. Ma innanzitutto nel 1996, periodo nel quale parlò di questo “papello”, Brusca raccontò fatti del tutto fasulli. Ad esempio il racconto del suo incontro con Luciano Violante – all’epoca presidente della commissione antimafia - sul volo Roma Palermo e che poi, fra mille polemiche che gli costarono lo status di pentito, ritrattò. Al primo processo Dell’Utri del ’97 se ne era perfino uscito così: “via via che facevamo le stragi da Capaci a via d’Amelio, fino alle stragi del ’93, la sinistra sapeva”. E come non dimenticare, sempre in tandem con Cangemi, quando aveva riferito agli inquirenti di Caltanissetta – e siamo nel 1997 – che fu l’allora procuratore Giuseppe Pignatone a far uscire le notizie sul dossier mafia-appalti e addirittura definirlo come un sodale di Antonino Buscemi – una delle persone coinvolte nella famosa indagine dei Ros – che faceva da sponda per la Feruzzi Gardini? Gli inquirenti non lo definirono credibile, sul presupposto che tali dichiarazioni riecheggiassero, in termini generici, quelle rese, già nel 1994, da Salvatore Cancemi. Sempre in coppia.
Ma per quanto riguarda la vicenda del “papello” e trattativa, la coppia Brusca e Cancemi, invece viene presa sul serio. Il primo atto lo si può leggere nella richiesta di archiviazione di “Sistemi Criminali” presentata dai procuratori di Palermo Roberto Scarpinato e Antonio Ingroia. Siamo nel 2000, e nella richiesta stessa si dà atto dell’apertura di un procedimento sulla trattativa Stato-mafia. I due pm, in sostanza, sono i primi a gettare le basi di questa inchiesta basandosi appunto sulle dichiarazioni dei due pentiti. Già allora, infatti, la Procura di Palermo aveva vagliato l'ipotesi che il “papello” di cui aveva parlato il Brusca attenesse a un progetto strategico di ricatto ad un organismo politico. Ma nel 2004 dovettero archiviare il procedimento. Gli stessi pm avevano ritenuto, all'epoca, che i riscontri investigativi effettuati non avessero colmato i numerosi 'buchi neri' che si presentavano nelle ricostruzioni iniziali.
Il procedimento viene riaperto nel 2008, perché subentra nella scena Massimo Ciancimino, il figlio di don Vito. Il suo è un singolare percorso processuale. Mentre collaborava con la procura palermitana fornendo “prove” che per la maggior parte verranno sconfessate, riferiva di visite di avvertimento da parte di fantomatici uomini in divisa, presunti emissari del fantomatico signor 'Carlo/ Franco', di minacce epistolari e verbali di morte, di intimidazioni fatte pervenire presso le abitazioni di Palermo e di Bologna, mai tempestivamente denunciate, a suo dire, per non gettare allarme a fronte della messa in circolazione - contestualmente alla progressione delle sue accuse - , di presagi di eventi sempre più catastrofici ai suoi danni.
Nell'avventura processuale di Ciancimino non può nemmeno sottacersi della calunnia operata ad arte ai danni di Gianni De Gennaro (all'epoca Capo della polizia) per cui il dichiarante sarà sotto processo e condannato; così come la vicenda dei candelotti di dinamite (detenuti in quantità tale da poter fare esplodere un intero isolato del centro di Palermo) fatti rinvenire ai Pm nel giardino della sua abitazione a Palermo, nell'aprile del 2011, per il cui possesso riporterà un’altra condanna.
Senza nemmeno dimenticare che nel frattempo verrà indagato da un’altra procura, e poi condannato, per aver riciclato il “tesoro” di suo padre don Vito. Eppure è grazie a Massimo Ciancimino che finalmente la procura di Palermo è riuscita a imbastire il processo nel 2013 ricorrendo al reato di minaccia al corpo politico dello Stato. È da qui che prende vita la tesi Trattativa Stato-mafia. Cosa ci racconta? A partire dal febbraio del 1992, le minacce mafiose all’allora ministro Calogero Mannino sarebbero finalizzate a creare un rapporto di interlocuzione con il mondo politico per contenere l’azione repressiva dello Stato. Quindi Mannino, tramite l’allora capo dei Ros Antonio Subranni, ordinò l’avvio di una trattativa per salvare la sua pelle. Gli ex Ros Mario Mori e Giuseppe De Donno si misero al servizio della politica instaurando il dialogo con Vito Ciancimino, che sfociò nella redazione di un documento proveniente da Riina, il “papello”, con una serie di richieste scritte sui benefici per la organizzazione mafiosa. Documento fatto pervenire per il tramite di Antonino Cinà, medico di Riina.
Tutta questa narrazione è stata smantellata a partire dalle sentenze precedenti (ci sono tanti processi “clone”) e con il sigillo finale dalla Cassazione. Parliamo della sentenza del 27 aprile che ha escluso ogni responsabilità degli ufficiali del Ros - peraltro già assolti in appello sotto il profilo della mancanza di dolo – negando ogni ipotesi di concorso nel reato tentato di minaccia a corpo politico. Per quanto riguarda la minaccia nei confronti del governo Berlusconi, di cui era accusato Marcello Dell’Utri, la sentenza ha confermato quanto deciso dalla Corte di assise di appello di Palermo, che ne ha riconosciuto l’estraneità del primo. In soldoni non è vero che l’ex ministro Mannino dette l’input all’avvio della trattativa, non è vero che gli ex Ros hanno veicolato la minaccia al governo e non è vero che quest’ultimo si è piegato di fronte alle minacce. Così come non è vero che Marcello Dell’Utri avrebbe proseguito la trattativa veicolando la minaccia mafiosa al suo amico Silvio Berlusconi quando era appunto presidente del Consiglio nel 1994.