È accaduto che la magistratura francese, “pare” nel corso di una indagine per terrorismo, abbia violato i server di alcune compagnie telefoniche che operano solo mediante telefoni criptati (i cosiddetti “criptofonini”) ed abbia acquisito, “pare”, tutta la messaggistica già scambiata e conservata nei server e tutta quella ancora in corso.

Oltre un miliardo di messaggi, “pare”. Un miliardo! Scambiati tra terroristi e narcotrafficanti, ma anche tra gente perbene che, per le più disparate ragioni di riservatezza, usava quei particolari mezzi di comunicazione. Militari, agenti segreti, governanti… “pare”. “Pare”, perché la polizia transalpina, nei giudizi cautelari seguiti agli arresti di quegli “utenti telefonici”, ha opposto il segreto militare sulle operazioni di captazione e decriptazione dei dati.

Nessuno può dunque sapere chi abbia violato il sistema, con quali strumenti, per quanto tempo; cosa sia stato acquisito e con quali criteri; cosa sia stato conservato, come e dove; cosa sia stato distrutto e perché. Nessuno può controllare i dati originali, verificare la loro autenticità, cercare dati a discarico della ipotesi di accusa. Un'operazione di indiscriminato e generale ascolto di una moltitudine di persone, tale da far impallidire lo scandalo Echelon e il Grande Fratello di Orwell insieme, e che ha presto coinvolto tutte le altre autorità giudiziarie europee. Anche quella italiana, che ha chiesto e ottenuto, con semplice richiesta del pm e senza alcun controllo o autorizzazione del giudice, i dati carpiti dagli omologhi francesi.

La Corte di Cassazione ha, con un primo orientamento, affermato che tali dati siano semplici documenti, acquisibili con provvedimento del pubblico ministero e assistiti (nonostante le mostruosità procedurali sopra esposte) da una presunzione di legittimità – essendo stati vagliati, nella fase di captazione, dall'autorità giudiziaria di un Paese dotato delle nostre stesse garanzie, se non di garanzie superiori – che imporrebbe all'indagato di dimostrare la loro illiceità per violazione di norme fondamentali dell'ordinamento. E, però, l'indagato non sa e non può sapere nulla del procedimento acquisitivo dei dati, sicché la possibilità di provare la loro illegittimità è puramente un “nome nudo”.

Di recente, una diversa sensibilità su temi così delicati ha indotto la sesta sezione della Cassazione a un orientamento difforme che, prendendo spunto anche dalla recente sentenza n. 170/23 della Corte costituzionale (sul conflitto di attribuzioni nel caso Renzi-Open), ha ricondotto la messaggistica telefonica al concetto di corrispondenza, così pretendendo, per la sua acquisizione, almeno l'autorizzazione di un giudice. Una decisione che a molti giuristi è apparsa ancora timida, nella tutela di garanzie costituzionalmente garantite: non solo quello alla riservatezza della corrispondenza, ma soprattutto quello alla difesa, così dimidiato nel caso di specie.

Eppure, il Fatto Quotidiano non ha tardato a lanciare i propri allarmistici strali, tacciando la sesta penale della Cassazione di avere uno “spiccato orientamento garantista” (che orrore!) e la Consulta di aver determinato la scarcerazione di pericolosi narcotrafficanti, per salvare Renzi. In questa lettura onirica e distorta della realtà, il Giudice delle Leggi avrebbe qualificato i messaggi scambiati dal senatore come corrispondenza e non semplici documenti e, quindi, ne avrebbe subordinato l'acquisizione all'autorizzazione della Camera di appartenenza. Precedente che, generalizzato, potrebbe ora vanificare le indagini in materia di criminalità organizzata.

Nella narrazione del quotidiano, tuttavia, la critica poggia su un approccio davvero superficiale non tanto ai complessi problemi di diritto che la vicenda sottende, quanto alla semplice lettura della sentenza della Corte costituzionale che, lungi dall'essere una preconcetta decisione ad personam, come si vorrebbe far credere, è per larga parte la ricognizione dello “stato dell'arte” circa i progressi della tecnica nelle comunicazioni.

Ricorda, infatti, la Consulta che l'ampliamento del concetto di corrispondenza rientra nel processo di adeguamento del testo costituzionale rispetto alla “emersione di nuovi mezzi e forme della comunicazione riservata”, richiamando propri, anche risalenti, precedenti, che hanno via via esteso la garanzia di riservatezza “ad ogni strumento che l’evoluzione tecnologica mette a disposizione a fini comunicativi, compresi quelli elettronici e informatici, ignoti al momento del varo della Carta costituzionale” (sentenze nn. 2/23, 20/17, 1030/88). Ma anche i giudici convenzionali, ricorda la Corte costituzionale, non hanno “avuto incertezze nel ricondurre sotto il cono di protezione dell’art. 8 Cedu i messaggi di posta elettronica, gli sms e la messaggistica istantanea tramite internet” (Barbulescu/Romania; Copland/Regno Unito; Saber/Norvegia).

I principi sanciti “per Renzi”, dunque, non sono una novità, ma fanno parte di quel costante processo di affinamento culturale e legislativo, grazie al quale l'uomo, nonostante continui rigurgiti di autoritarismo, non è più costretto a vivere nelle Latomie, con l'orecchio del tiranno sempre in ascolto.