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processo a vita
L’ultimo quesito che la Corte Europea per i Diritti dell’uomo pone al Governo Italiano, nel noto caso Cavallotti/ Italia, attiene allo statuto della prova e alla ripartizione del suo onere nel procedimento di prevenzione nazionale.
I Giudici convenzionali chiedono di sapere se la giurisprudenza domestica abbia fondato le proprie pronunce su “valutazioni oggettive” e “prove fattuali” e non, piuttosto, su “mero sospetto”.
E chiedono anche che venga loro spiegato se l’onere della prova incomba alla autorità pubblica, ovvero al privato e se, in tale ultimo caso, l’inversione di tale onere, specie riguardo ad acquisti assai risalenti nel tempo, comporti un peso eccessivo per la parte che si difende, se tale peso sia compatibile con i principi europei ( e, a dire il vero, anche nazionali) in punto di misure sanzionatorie, tutti ispirati a canoni di accusatorietà. Immaginiamo già l’imbarazzo di chi dovrà rispondere a simili quesiti, se partiamo dal presupposto che il Codice Antimafia non chiarisce quale sia lo standard probatorio che debba sorreggere l’adozione di misure votate a sconvolgere le vite dei loro destinatari. I possibili candidati a una misura di prevenzione ( personale o patrimoniale), infatti, possono essere tanto i soggetti “indiziati” della commissione di taluni reati – contenuti in un catalogo che diventa sempre più pletorico e sempre meno destinato a contrastare la criminalità organizzata – quanto coloro i quali “risultino” vivere con i proventi dei traffici delittuosi. Il verbo “risultare” richiama un fenomeno di conoscenza euristica, all’esito di un procedimento dimostrativo/ accertativo e, quindi, evoca il concetto di “prova”. Ma quale sia la natura di questa prova, non viene chiarito. Di questa specificazione, si è incaricata la giurisprudenza interna che, ponendo tradizionalmente la prevenzione fuori dalla materia penale, la ha progressivamente sottratta a quasi tutte le garanzie di tipo “impeditivo” che assistono l’irrogazione di una pena, anche a quelle che determinano lo standard probatorio minimo del trial penale. Così, nel procedimento di prevenzione non solo non vige il principio dell’“al di là di ogni ragionevole dubbio”, ma, al contrario, la valutazione della consistenza dimostrativa della prova avviene secondo la massima del “più probabile che non”, di chiara matrice civilistica.
Altro è la prova della colpevolezza, ricorda la Cassazione ( Cass. n. 31549/ 2019), altro la prova della pericolosità sociale. Anche se dalla pericolosità, come dalla colpevolezza, deriva la compressione della libertà personale e della proprietà privata.
E anche la prova indiziaria ha le sue – distorsive e distoniche – peculiarità, dal momento che il concetto di indizio di prevenzione, secondo la giurisprudenza nazionale, non ricalca né quello
di gravità previsto per le misure cautelari ( art. 273 cpp) né quello, ulteriore, di precisione e concordanza previsto per la condanna ( art. 192 cpp).
Tanto che la Cassazione, pacificamente, ritiene che al procedimento di prevenzione non si applichino i criteri ermeneutici propri della valutazione penale indiziaria, relegando l’indizio di prevenzione ad un minus rispetto a quello di colpevolezza.
E così, il solo status di indagato o di imputato – specie se cautelato – in un procedimento penale diviene spesso indizio prevenzionale di commissione di quei reati, ad onta della predicata autonomia dei procedimenti.
La prova cede il passo all’indizio, l’indizio ( né grave, né preciso, né concordante) diventa sospetto. Quel sospetto che innerva il nostro sistema di prevenzione e che la Corte Europea, neanche troppo larvatamente, censura nel proprio provvedimento.
La Corte Edu sembra poi censurare anche le regole che sovrintendono all’accertamento patrimoniale. Se, infatti, la “prova” della pericolosità ( con i limiti cognitivi segnalati) sembra incombere alla parte pubblica, quella della provenienza lecita dei beni di cui si chiede la confisca è gravante invece sulla parte privata. Un’inversione dell’ordinaria ripartizione dell’onere probatorio, che la giurisprudenza nazionale ha avallato, con una particolare abilità semantica e lessicale, definendola “onere di allegazione” ( la prevenzione vive da sempre di “truffe delle etichette”…). Ma questo onere diventa eccessivamente gravoso, se non impossibile ( non a caso si parla di “prova diabolica”), quando i beni da giustificare sono stati acquisiti molti anni prima rispetto all’azione di prevenzione e senza che esistano più testimoni o documenti in grado di dimostrare l’origine di quel patrimonio.
Su questo aspetto, in particolare, si concentra l’ordinanza “Cavallotti”, chiedendo al Governo se l’inversione dell’onere della prova, per gli acquisti più risalenti, non si risolva in un peso eccessivo per la parte privata in violazione dei principi convenzionali e, in particolare, del primo protocollo addizionale alla Carta Edu. In definitiva, tutti i quesiti che la Corte Europea pone all’Italia mettono finalmente a nudo i sofismi e i distinguo con i quali si pretende ancora di legittimare un sistema sanzionatorio parallelo a quello penale e a questo ormai complementare, se non addirittura alternativo. Un sistema che non trova legittimazione nella Costituzione ( che riconosce solo le pene e le misure di sicurezza) ma nell’opportunità – terribile – che il potere pubblico disponga di uno strumento di repressione non regolato dal sistema delle garanzie proprie del diritto penale di matrice liberale.
* Avvocati penalisti