“Era un atto dovuto”: così si è ripetuto, quasi come un mantra, per giustificare la decisione della Procura di Roma di iscrivere nel registro degli indagati la presidente del Consiglio Giorgia Meloni, i ministri Matteo Piantedosi e Carlo Nordio, e il sottosegretario alla Presidenza Alfredo Mantovano. Una scelta obbligata, secondo alcuni, dettata dalla necessità di trasmettere il caso al Collegio dei reati ministeriali, informando “immediatamente” gli interessati per permettere loro di presentare memorie o difese. Ma è davvero così?

Il caso in questione riguarda la scarcerazione e il rimpatrio di Almasri, considerato uno dei capi dei torturatori nei lager libici. Secondo una certa narrazione, la Procura non avrebbe avuto alternative. Eppure, non è così scontato. Il procuratore Francesco Lo Voi ha ricevuto la denuncia per due reati ministeriali lo scorso 23 gennaio, ma l'idea che non avesse margine di discrezionalità è una bufala. Esistono, del resto, precedenti che dimostrano il contrario.

Prendiamo, ad esempio, un esposto presentato cinque mesi fa dal direttivo di Nessuno Tocchi Caino – composto da Sergio D’Elia, Rita Bernardini, Elisabetta Zamparutti - e dal deputato di Italia Viva Roberto Giachetti, che ha conferito mandato difensivo all’avvocata Maria Brucale. Quel caso, molto più articolato e strutturato rispetto alla denuncia di poche righe presentata dall’avvocato Luigi Li Gotti, è finito nel nulla.

In questi giorni si fa spesso riferimento alla legge costituzionale n. 1 del 1989, che prevede che il procuratore, una volta ricevuta una denuncia, “ometta ogni indagine” e trasmetta gli atti al Tribunale dei ministri entro quindici giorni, dando “immediata comunicazione” agli interessati. Tuttavia, questa fase arriva solo dopo una valutazione preliminare: il pm deve infatti accertare se quanto denunciato sia del tutto privo di rilevanza penale o costituisca, invece, una notizia di reato. Come hanno sottolineato le Camere Penali in risposta al comunicato dell’Anm, già nel 2009 le Sezioni Unite della Suprema Corte di Cassazione, con la famosa sentenza “Lattanzi”, avevano chiarito che l’obbligo del Pubblico ministero di iscrivere una notizia di reato e il nome dell’indagato nel relativo registro sorge solo in presenza di una notizia “qualificata”, e non di qualunque esposto, denuncia o querela.

Questo principio è stato poi recepito dal legislatore con la riforma “Cartabia” del 2022, che ha modificato l’articolo 335 del Codice di Procedura Penale. Ora, per procedere all’iscrizione della notizia di reato, è necessario che si tratti di un fatto “determinato e non inverosimile”, riconducibile in ipotesi a una fattispecie incriminatrice, e che “risultino” “indizi” a carico della persona alla quale il reato è attribuito.

Tolta ogni ambiguità sull’“atto dovuto”, e separando la questione politica – legata al controverso Memorandum d’intesa sulla migrazione firmato nel febbraio 2017 tra Italia e Libia, con l’obiettivo di tenere migranti, rifugiati e richiedenti asilo lontani dall’Europa –, resta il fatto che la discrezionalità del pm ha portato a ignorare del tutto un altro esposto. In quel caso, si chiedeva di verificare eventuali profili di responsabilità penale, anche concorsuale, a carico del ministro della Giustizia Carlo Nordio, dei sottosegretari con delega alla giustizia e alle carceri, Andrea Delmastro Delle Vedove e Andrea Ostellari.

L’esposto, un documento di 26 pagine, analizza in modo approfondito la situazione delle carceri italiane, denunciando non solo le responsabilità politiche e istituzionali dietro il sovraffollamento carcerario e le violazioni sistematiche dei diritti umani che ne derivano, ma chiede anche di valutare se sussistano responsabilità penali a carico del ministro della Giustizia e dei sottosegretari, in base all’articolo 40 del Codice Penale, che stabilisce che “non impedire un evento, che si ha l’obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo”. In particolare, si chiede di indagare su eventuali omissioni che hanno portato a violazioni dei diritti umani, suicidi e morti evitabili.

A differenza della denuncia di Li Gotti, che si limitava a riportare i due eventuali reati e allegando articoli di giornale, questo esposto ha offerto una visione d’insieme, supportata da dati, sentenze e riferimenti normativi, evidenziando come la crisi carceraria sia il risultato di anni di inazione politica e di scelte legislative che hanno aggravato, anziché risolvere, il problema. L’esposto ha descritto in modo dettagliato le condizioni di vita nei penitenziari: celle sovraffollate, servizi igienici inadeguati, mancanza di acqua calda, illuminazione insufficiente, strutture fatiscenti e promiscuità forzata. I detenuti vivono in ambienti malsani e degradanti, privati dei diritti più basilari, come l’accesso alle cure mediche, al cibo adeguato e ai contatti con i familiari. La Corte costituzionale italiana, in piena sintonia con la Cedu, ha più volte ribadito che il sovraffollamento può tradursi in trattamenti contrari al senso di umanità, rendendo necessari rimedi estremi, come la fuoriuscita dei detenuti dal circuito carcerario. Tuttavia, queste indicazioni sono rimaste lettera morta.

L’esposto ha puntato il dito contro il ministro della Giustizia Carlo Nordio e i sottosegretari Andrea Delmastro Delle Vedove e Andrea Ostellari, accusandoli di non aver adottato misure immediate per affrontare l’emergenza e soprattutto preservare la vita dei detenuti. Nonostante le continue promesse di soluzioni strutturali, il governo ha preferito ignorare il problema, aggravando ulteriormente la situazione con politiche punitive e repressive. In particolare, l’esposto denuncia il rifiuto di applicare misure deflattive, come l’aumento dei giorni di liberazione anticipata, che potrebbero alleviare il sovraffollamento. Una proposta in tal senso, avanzata da Roberto Giachetti, è stata sistematicamente ignorata, dimostrando una mancanza di volontà politica nel risolvere la crisi. Nonostante la sua completezza e il rigore con cui è stato redatto, a oggi l’esposto non risulta trasmesso al Tribunale dei ministri. A differenza della denuncia dell’avvocato Li Gotti, che ha portato all’iscrizione nel registro degli indagati di Meloni, Piantedosi, Nordio e Mantovano, questa denuncia sembra essere finita nel nulla.

Tutto questo per ribadire, ancora una volta, che non si tratta di un semplice “atto dovuto”, ma di un doppio standard che privilegia alcuni casi rispetto ad altri. Come ha sottolineato Sergio D’Elia in conferenza stampa, la loro denuncia aveva principalmente un valore politico, pur basandosi su fatti penalmente rilevanti che, in base al principio di obbligatorietà dell’azione penale, avrebbero dovuto portare a un’indagine. «Non sono un amante del diritto penale», ha dichiarato D’Elia, «tant’è che, per quanto mi riguarda, se la nostra denuncia dovesse arrivare davanti a un tribunale, non mi costituirò parte civile». Questo è lo spirito radicale che ha sempre animato le loro battaglie: denunciare per garantire il rispetto dello Stato di Diritto e far emergere abusi sistematici, non per colpire un governo o alimentare conflitti politici.

Questo caso è emblematico di un problema più ampio: alcune Procure, nonostante il principio di obbligatorietà dell’azione penale, esercitano un potere politico che va oltre il loro ruolo istituzionale. A seconda di chi le guida, possono trasformarsi in luoghi neutrali, spazi di compensazione e pacificazione dei conflitti, o addirittura in arsenali da cui partono “bombe” destinate a far crollare giunte, maggioranze o governi, locali e nazionali. Ovviamente, non stiamo parlando nello specifico della Procura di Roma, ma di una questione sistemica che riguarda l’intero Paese. Una cosa, però, è certa: il carcere rimane l’ultimo dei problemi per chiunque, un tema spesso dimenticato, nonostante rappresenti una delle più gravi emergenze sociali e umanitarie del nostro tempo.