PHOTO
Stefano Porta /LaPresse
Spionaggio industriale, più che politico, visto che l’inchiesta lambisce solo un paio di personaggi, questa volta. Nessun collegamento con la criminalità organizzata. E nonostante il clamore mediatico e le richieste di 16 arresti da parte della procura, solo pochi provvedimenti cautelari, quattro detenzioni domiciliari e due interdittive.
Potrebbe essere questa la sintesi dell’inchiesta che vede al centro la società milanese di investigazioni Equalize e il sospetto di spionaggio. Ma si è mosso da Roma il procuratore nazionale antimafia Giovanni Melillo, anche se va detto semplicemente che la sua presenza a Milano potrebbe esser giustificata dal fatto che per questo tipo di reati è competente la procura distrettuale, proprio come per il 416 bis, l’associazione mafiosa.
Pure la partecipazione del dottor Melillo al fianco del procuratore milanese Marcello Viola alla conferenza stampa ha indicato la rilevanza che viene data a questa inchiesta, nonostante la modestia dei provvedimenti cautelari. Toni minori nell’evitare il carcere preventivo, un po’ il contrario di quel che succedeva a Milano ai tempi di “Mani Pulite”. Grande enfasi nella conferenza stampa delle grandi occasioni e soprattutto, di nuovo, dopo quello sull’inchiesta di mafia “Hydra”, l’aperto conflitto tra la procura e l’ufficio del gip.
Nelle richieste del pm Francesco De Tommasi c’era la previsione di poter mettere le manette e accompagnare in carcere 13 dei 51 indagati, e di mandarne tre ai domiciliari. Tra questi Enrico Pazzali, presidente della Fondazione Fiera e socio di maggioranza di Carmine Gallo, mitico e storico “sbirro” milanese, coccolato nel corso degli anni da tanti uomini di procura. Ma è proprio da quello stesso corridoio del quarto piano del palazzo di giustizia di Milano che è arrivata la richiesta che il socio di minoranza della società di investigazioni Equalize sia spedito a San Vittore, insieme al suo collaboratore e mago dell’informatica Samuele Colamucci.
Insiste sul provvedimento, con un ricorso al tribunale del riesame, firmato anche dal procuratore Marcello Viola e dall’aggiunto Alessandra Dolci, il pm Francesco De Tommasi, che le cronache ricordano per lo scontro con le psicologhe di San Vittore in un processo per infanticidio. Nell’ordinanza del gip Filippo Felice sono snocciolate con pedante cura le quaranta imputazioni, che vanno dall’inevitabile associazione per delinquere all’accesso abusivo ai sistemi informatici, la corruzione per atti contrari ai doveri d’ufficio, le intercettazioni illecite fino al favoreggiamento e all’estorsione. Ma evidentemente le condizioni per gli arresti non sono state ritenute sufficienti. Il che fa dire al procuratore Melillo che «siamo solo all’inizio».
Al suo fianco Marcello Viola puntualizza che dalle indagini risulta che ci troviamo davanti al classico, e comunque gravissimo, spionaggio industriale. E pare proprio così, nonostante che dalle 1.172 pagine del pm, come sempre distribuite a piene mani, senza che nessuno si scandalizzi neppure per le intercettazioni che riguardano persone non indagate, emerga qualche nome di politico. Quello di Ignazio La Russa, il caso più preoccupante perché si tratta del presidente del Senato.
E poi Letizia Moratti, ma solo di riflesso, per la curiosità del presidente della Fiera di sapere chi fossero i suoi sostenitori nella campagna elettorale per le ultime elezioni regionali della Lombardia. Quanto a Matteo Renzi, solo un tentativo, subito abbandonato per il timore di “alert”. Ma intanto siamo al quarto caso, solo per restare al bilancio del 2024, di intrusione sistematica nella vita di persone e aziende con l’aiuto di hacker e consulenti specializzati a bucare le zone più nascoste e riservate della rete informatica, con le finalità più diverse.
Due i casi di cittadini che agivano individualmente con motivazioni ancora oscure su cui hanno fornito agli investigatori versioni poco credibili. C’è il bancario di Bari, che spiava centinaia di conti di Banca Intesa «per curiosità», e poi l’hacker assetato di giustizia fino al punto di entrare nel ministero e di spiare 46 procuratori dopo essersi appropriato delle loro password.
Il caso più grave rimane però sempre quello nato e cresciuto all’interno della stessa Direzione Nazionale Antimafia, con una catena di comando che andava dal vertice dell’allora procuratore capo Federico Cafiero De Raho, per scendere al suo vice Giovanni Russo e poi a Antonio Laudati e al tecnico informatico, il capitano della guardia di finanza Pasquale Striano. Gli ultimi due sono gli indagati alla procura di Perugia che ne ha ripetutamente chiesto, finora invano, la custodia cautelare ai domiciliari. Un’attività intrusiva, denunciata dal ministro Guido Crosetto quando aveva visto spiattellate sul quotidiano Domani informazioni riservate sulla sua attività professionale, che aveva rivelato 130.000 accessi abusivi.
L’aspetto più rilevante di questa inchiesta è la difficoltà ad approfondire le finalità di questa attività di spionaggio e compilazione di relativi dossier. Possibile che tutto si risolvesse nel favorire tre giornalisti del Domani per i loro scoop? Pare non essere emerso ancora nulla di significativo al riguardo, né dalle indagini del procuratore Cantone a Perugia, né a Roma dalle audizioni della commissione parlamentare antimafia presieduta da Chiara Colosimo. Per questo è sorprendente lo scarso senso delle istituzioni mostrato fino a ora da Cafiero de Raho, ora deputato M5S, che non si discosta dal suo ruolo di vicepresidente della commissione e non mostra disponibilità a farsi audire come ex capo di quel pericoloso nido di vipere che era diventata la Dna sotto la sua direzione.
C’è stata pochi giorni fa in commissione la deposizione del colonnello della guardia di finanza Stefano Rebechesu, che non ha avuto alcuna difficoltà a ricordare che «tutte le funzioni promanavano come incarichi dal procuratore nazionale tramite il consigliere Laudati». La famosa catena di comando. Milano è tutta un’altra storia. Vedremo nelle prossime settimane se avrà ragione il procuratore Melillo a dire che questa inchiesta è solo all’inizio. O se invece comincia e finisce lì, con i 51 indagati, quattro arresti domiciliari e le due interdittive.
Ma l’importante è che il capo della Dna, così premuroso nella sua presenza a Milano, non dimentichi che è proprio negli uffici oggi da lui diretti che è nata la più pericolosa corruzione politica di spionaggio, con la compilazione di dossier che riguardano uomini e donne di governo, e con la complicità anche di una parte della stampa. E nessuno dovrebbe distrarsi dalla vera testa del serpente. Che è a Roma.