È legittimo chiedersi come sia possibile che un magistrato con il curriculum di Stefano Luciani sia stato escluso all’ultimo minuto dalla corsa alla Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo per fare spazio ad altri colleghi che non hanno mai affrontato direttamente casi di mafia. In barba ad un bando che non prevedeva caratteristiche altre, valorizzate però, stando a quanto dichiarato da diversi membri del Consiglio superiore della magistratura, dopo l’audizione del procuratore nazionale Giovanni Melillo e, dunque, ex post, ha fatto notare in plenum il togato di Unicost Marco Bisogni.

La decisione appare particolarmente controversa, soprattutto alla luce dell’esperienza specifica e del percorso professionale di Luciani nel campo delle indagini antimafia. Anche perché, è il caso di ricordarlo, il bando prevedeva la copertura di cinque posti, che sono diventati sette soltanto in corso d’opera, a seguito di una nota con cui il procuratore nazionale rappresentava la perdurante e grave carenza di organico con la copertura di soli 15 posti a fronte dei 22 previsti dalla pianta organica. E la votazione, alla fine, ha prodotto un risultato distopico: a fronte di una cinquina condivisa, che vedeva Luciani tra i nomi dati per certi, la discussione in plenum si è concentrata sui quattro magistrati in ballo per i due posti rimanenti, ovvero Eugenio Albamonte, l’unico senza una specifica esperienza antimafia, Giovanni Musarò, Antonella Fratello e Maurizio Giordano, finendo con l'esclusione di un candidato di cui mai si è discusso e per la cui posizione i relatori non hanno speso nemmeno una parola.

Il criterio della “specifica esperienza” in indagini e processi di criminalità organizzata, che dovrebbe rappresentare il requisito principale per queste nomine, è stato considerato equivalente a criteri pure non presenti nel bando. La discussione in plenum si è concentrata alla fine attorno ai nomi di Albamonte e Musarò, il primo corrispondente alla figura delineata da Melillo in audizione, il secondo con alle spalle decine di processi antimafia. Proprio per tale motivo l’esito del voto è risultato spiazzante: anziché selezionare due nomi dalle proposte in gioco, si è deciso di eliminare uno dei nomi che sembravano certi. E che, il caso vuole, è tra i pochi, in questa selezione, a non avere alcuna appartenenza correntizia.

Il correntismo, croce e delizia del Csm, è stato tirato in ballo, come sempre, dall’indipendente Andrea Mirenda. Che ha sottolineato come «le competenze centrali per la Dna restano quelle relative al contrasto alla mafia e al terrorismo. Non si è mai dato particolare rilievo a competenze ancillari come il cybercrime - ha sottolineato -. Tuttavia, negli ultimi anni abbiamo assistito a un affinamento dei criteri postumo, che rischia di assumere i contorni di una personalizzazione, quasi un affinamento ad personam. Questo porta a interrogarsi: perché una candidatura sì e un’altra no? Le decisioni spesso passano attraverso voti espressi da consiglieri legati, in modo più o meno evidente, ai candidati in discussione. A quel punto, che cosa resta della discrezionalità tecnica?».

Parole alle quali ha replicato Marcello Basilico, esponente di Area, la stessa corrente di cui Albamonte è stato segretario: «Mi muovo su questa pratica con l’umiltà di chi non ha esperienza diretta di rapporti, come ho sentito dire, con vari candidati». E «voglio ricordare che l’antiterrorismo è nel bando», ha dichiarato. Materia per la quale, ha aggiunto, anche Melillo ha detto che il cybercrime è centrale. «Nessuno ha detto che nel preambolo del bando si fa espressamente riferimento all’integrazione all’articolo 371 bis operato alla legge 173 del 2023 sulle competenze del procuratore nazionale antimafia in materia di crimini criminalità informatica - ha dunque aggiunto - e questa premessa del bando credo che un significato dovrà averla le in collegamento anche con le competenze in materia informatica».

Ora toccherà attendere le motivazioni della Terza Commissione, dove la pratica è tornata per spiegare l’esito del voto. Ma il punto debole rimane quello relativo ai titoli, come evidenziato nel suo report da Unicost, accusata da Area di muoversi in ottica elettorale in vista delle elezioni dei vertici dell’Anm: «Premesso che tutte le esperienze significative del collega (Albamonte, ndr) erano maturate in un solo ufficio giudiziario e che la permanenza complessiva nel gruppo antiterrorismo (rilevante per il bando) era protratta per un solo decennio (diversamente da altri aspiranti cui veniva riconosciuto il punteggio di 6 e che vantavano competenze maturate in più uffici distrettuali e per periodi temporali solitamente superiori al decennio), abbiamo proceduto a una disamina dei titoli indicati nella proposta di maggioranza e descritti nell’autorelazione con specifico riferimento alla criminalità terroristica, evidenziando come la qualità e la quantità dei procedimenti trattati in questo settore non fossero all’altezza di quelli degli altri concorrenti (pochi i dibattimenti, poche le misure cautelari, pochi gli indagati e gli imputati rispetto ai procedimenti trattati dagli altri aspiranti). Albamonte, poi, non risulta avere esperienza nella gestione di collaboratori di giustizia o di detenuti in regime di 41 bis e non ha mai rappresentato l’accusa in maxiprocessi». Argomenti che, però, non hanno fatto breccia.

Luciani, invece, vanta una carriera che lo ha visto protagonista di alcune tra le più significative inchieste antimafia degli ultimi anni. Sotto la guida del procuratore capo Sergio Lari presso la procura di Caltanissetta, il magistrato, ora in forza alla procura di Roma, ha condotto alcune delle indagini più rilevanti di quel periodo. Tra queste spicca lo smascheramento del depistaggio relativo alla strage di Via D’Amelio, che ha portato al processo Borsellino Quater, un passo cruciale per fare luce su uno dei momenti più oscuri della storia giudiziaria italiana. Inoltre, ha avviato l’inchiesta sul cosiddetto “Sistema Montante” e ha contrastato con successo ulteriori tentativi di depistaggio, come quello volto a coinvolgere la figura di “Faccia da Mostro” nei fatti di Via D’Amelio, svelando la falsità delle dichiarazioni di alcuni pentiti controversi. E lo ha fatto segnalando al Csm singolari interferenze che provenivano proprio dalla procura nazionale antimafia. Ciò che desta sorpresa, tra gli addetti ai lavori, è il fatto che sembri essere stato penalizzato proprio quell’approccio investigativo ispirato al “metodo Falcone”, spesso esaltato nei contesti istituzionali, ma facilmente ostracizzato quando tocca passare ai fatti. Questo paradigma investigativo, caratterizzato da una meticolosa verifica delle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, un approccio pragmatico alle indagini e una costante ricerca di riscontri concreti, rappresentano un patrimonio inestimabile nella lotta alla criminalità organizzata. Un’impostazione improntata sull’indipendenza dalle logiche di appartenenza che costituisce uno strumento fondamentale per il sistema giudiziario.

Non si esclude, ora, che Luciani possa far ricorso al Tar. Una eventualità ancora non dichiarata, ma comunque possibile, che esporrebbe il Csm, per l’ennesima volta, ad una valutazione della sua discrezionalità. Troppo ampia, secondo una buona parte del Consiglio, sacrosanta, secondo la restante parte, ma spesso bocciata dai giudici amministrativi, che hanno più volte smontato le motivazioni che accompagnavano nomine e decisioni in maniera tranchant. E di fronte a un bando che prevedeva la valorizzazione di esperienze presso dda o gruppi di lavoro in ambito terroristico sono state valorizzate competenze diverse da quelle classiche, come il cybercrime, che, ha evidenziato in maniera critica il consigliere di Magistratura indipendente Dario Scaletta, «non è un reato», ma «una modalità attraverso cui determinate attività criminali vengono compiute». L’inverno a via Giulia, dunque, si preannuncia rigido.