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È legittimo agire in giudizio per discriminazione contro dichiarazioni omofobe in materia di occupazione e di lavoro se pronunciate da chi ha o può avere un’influenza determinante sulla politica di assunzioni di un datore di lavoro. A stabilirlo è la Corte di giustizia europea, chiamata a pronunciarsi sul caso che ha visto coinvolto il noto penalista Carlo Taormina, condannato dal tribunale di Bergamo e dalla Corte d’Appello di Brescia a risarcire con 10mila euro un’associazione di avvocati che tutela i diritti degli omosessuali. A portare Taormina in tribunale le parole pronunciate ai microfoni de La Zanzara, trasmissione di Radio 24, quando ha affermato che non avrebbe mai assunto un omosessuale. Taormina avrebbe dunque violato la “direttiva antidiscriminazioni”, nella parte relativa alle “condizioni di accesso all’occupazione e al lavoro”, pur non essendoci, in quel momento, nessuna procedura di selezione di personale. Il caso è arrivato a Lussemburgo dopo il ricorso di Taormina per Cassazione, i cui giudici hanno girato il quesito alla Corte di giustizia in via pregiudiziale, in merito all’interpretazione della nozione di «condizioni di accesso all’occupazione e al lavoro». Gli ermellini hanno chiesto alla Corte di giustizia di stabilire, in primo luogo, se un’associazione di avvocati, come l’Associazione avvocatura per i diritti Lgbti, abbia un interesse legittimo a garantire che le disposizioni di tale direttiva siano rispettate e, quindi, il diritto di avviare una procedura finalizzata all'esecuzione degli obblighi derivanti dalla stessa. Legittimazione riconosciuta dal giudice d’appello in quanto, stando allo statuto, l’associazione ha «lo scopo di contribuire a sviluppare e diffondere la cultura e il rispetto dei diritti delle persone» Lgbti, «sollecitando l’attenzione del mondo giudiziario», e «gestisce la formazione di una rete di avvocati (…) favorisce e promuove la tutela giudiziaria, nonché l’utilizzazione degli strumenti di tutela collettiva, presso le Corti nazionali e internazionali». La Cassazione ha chiesto anche chiarimenti sui limiti che la normativa per la lotta contro la discriminazione in materia di occupazione e di lavoro appone all’esercizio della libertà di espressione, alla luce del fatto che, nel caso Taormina, non era in corso alcuna selezione di lavoro. La Corte, nel decidere, ha fatto riferimento ad una sua precedente sentenza, Asociația Accept, sottolineando come tali dichiarazioni lascino intendere l’esistenza di una «politica di assunzioni omofoba», nonostante a pronunciarle sia una persona che non abbia la capacità giuridica di assumere. Ad incidere, dunque, sono lo status dell’autore e la veste nella quale si è espresso, data la capacità di esercitare un’influenza determinante sulla politica di assunzioni. Ma da valutare sono anche la natura e il contenuto delle dichiarazioni, il contesto in cui sono state effettuate e, in particolare, il loro carattere pubblico o privato. Un’interpretazione della norma che, secondo la Corte, non comporta alcuna limitazione all’esercizio della libertà d’espressione, che non è «un diritto assoluto» e che può incontrare limitazioni, purché previste dalla legge. Nel caso di Taormina, le limitazioni sono proprio quelle sancite dalla dottrina “antidiscriminazioni” e si applicano soltanto allo scopo di garantire il principio della parità di trattamento in materia di occupazione e di lavoro e la realizzazione di un elevato livello di occupazione e di protezione sociale, vietando esclusivamente le dichiarazioni che rappresentano una discriminazione in quell’ambito, a tutela di persone ancora oggi oggetto di discriminazione. Ed è per tale motivo che il fatto di costituire un’opinione personale non rappresenta un’esimente, venendo meno, in quel modo, la tutela concessa dalla direttiva. Per la Corte, dunque, «l’espressione di opinioni discriminatorie in materia di occupazione e di lavoro, da parte di un datore di lavoro o di una persona percepita come capace di esercitare un’influenza determinante sulla politica di assunzioni di un’impresa, è idonea a dissuadere le persone in questione dal candidarsi ad un posto di lavoro». Anche sulla legittimazione dell’Associazione ad agire contro Taormina la Corte è chiara: nonostante non sia identificabile una “vittima” specifica di tali dichiarazioni, la direttiva prevede la possibilità, per gli Stati membri, «di introdurre o mantenere disposizioni più favorevoli alla tutela del principio della parità di trattamento rispetto a quelle in essa contenute». Tocca, dunque, agli Stati decidere se lo scopo di lucro o meno dell’associazione possa avere un’influenza sulla valutazione della sua legittimazione ad agire in giudizio. La palla, ora, passa ai giudici di Cassazione, che dovranno risolvere definitivamente la controversia, sulla base dell’interpretazione data dalla Corte di giustizia.