Se il Capo dello Stato, nel suo messaggio di fine anno 2023, avesse pronunciato, al fianco di alti concetti come “dignità negate” e “diritti calpestati”, le tre paroline “Stato di diritto”, avrebbe dato sostanza alla agognata svolta sulla giustizia del suo discorso di insediamento di due anni fa. Quando fu tirato per la giacca e supplicato di accettare il secondo mandato, mentre stava già traslocando i mobili nella nuova casa, e colse l’occasione per ricordare, anche quale vertice del Csm, alla casta della magistratura, che l’indipendenza e l’autonomia sono beni da riconquistare ogni giorno. Pena la perdita di credibilità degli amministratori di giustizia.

Un discorso alle Camere di trentotto minuti punteggiato da cinquantacinque applausi con i deputati tutti in piedi. State rischiando, aveva detto ai magistrati Sergio Mattarella, con il garbo che non somigliava all’irruenza di un Sandro Pertini ma neanche al ringhio picconatore di Francesco Cossiga, di perdere la fiducia dei cittadini. Soprattutto per sentenze ingiuste, “decisioni arbitrarie o imprevedibili”, per l’eccessivo interesse di alcuni verso il potere, per certe opacità dello stesso Csm travolto dalla zavorra delle correnti.

Il dopo Palamara aveva avuto il suo peso, ma quel discorso del 3 febbraio 2022 era stato accolto come una svolta sulla giustizia che in realtà non c’è stata. Infatti la parola “giustizia” nel discorso di capodanno 2023 non è stata nominata. Ci sarebbe piaciuto sentirla, soprattutto al fianco di quell’altra che suona come “dignità”. La dignità dei protagonisti del processo penale, per esempio. A partire da quella del giudice, terzo e distante dalle parti. E la dignità dell’indagato, come prescritto con diversi provvedimenti dagli organi di giustizia europei.

A partire da quella direttiva del 2016 sulla presunzione di innocenza, il cui testo, piuttosto esplicito e in linea con l’articolo 27 della nostra Costituzione, non era mai diventato legge italiana fino al 30 marzo 2021. Anzi, ai tempi del governo Conte e del ministro Bonafede, quelli in cui si varavano provvedimenti come la “spazzacorrotti”, la proposta del deputato Enrico Costa era stata bocciata nella commissione Giustizia della Camera. Poi, grazie anche alla mediazione della ministra Marta Cartabia, era diventata legge addirittura anche con il voto del Movimento cinque stelle.

Se si parla di Costituzione, e i Capi di Stato, nei loro messaggi di fine anno, ma non solo, la citano sempre e giustamente a piene mani, non si può trascurare l’articolo 27 sulla non colpevolezza prima di una condanna definitiva. Così come quell’articolo 21 sulla libertà di stampa che troppo spesso cronisti e pubblici ministeri alleati citano a sproposito, per giustificare la propria complicità nella messa in berlina di chi ha la sfortuna di finire indagato se non addirittura arrestato prima del processo. Il testo della direttiva europea diceva testualmente: “La presunzione di innocenza sarebbe violata se dichiarazioni pubbliche rilasciate da autorità pubbliche o decisioni giudiziarie diverse da quelle sulla colpevolezza presentassero l’indagato o l’imputato come colpevole fino a quando la sua colpevolezza non sia stata legalmente provata”.

Quella votazione tardiva del Parlamento italiano, a sei anni di distanza dall’emanazione della direttiva europea, avrebbe dovuto, nelle intenzioni anche della ministra Cartabia che l’aveva sostenuta con forza, porre fine alle conferenze stampa show, e ai nomi di fantasia che caratterizzavano inchieste e blitz.

I risultati furono parziali. Ci fu un procuratore come quello di Roma, Francesco Lo Voi, che, appena insediato, aveva emesso una circolare per mettere un freno a quegli organi di polizia giudiziaria, soprattutto la Guardia di finanza, che chiedevano continue autorizzazioni a emettere comunicati stampa. E ci fu invece chi, come il procuratore di Catanzaro ( oggi a Napoli) Nicola Gratteri, aveva continuato imperterrito con le conferenze stampa, cogliendo l’occasione per criticare le riforme Cartabia e fare sarcasmo con frasi del tipo “oggi abbiamo arrestato 60 presunti innocenti”.

Proprio per questa applicazione della norma a macchia di leopardo e per l’esondazione continua di atti giudiziari, in particolare delle ordinanze di custodia cautelare, si capì che l’applicazione della direttiva europea non sarebbe stata completa senza un necessario nuovo intervento del Parlamento. Proprio nei giorni dell’intervento del Presidente Mattarella nel suo insediamento, con un’intervista alla nostra Valentina Stella (su Il Dubbio del 4 febbraio 2022), Giuseppe Belcastro, responsabile dell’osservatorio Informazione giudiziaria dell’Unione Camere penali, lanciò il sasso. “È sicuramente una criticità - aveva detto- il fatto che la nuova norma non abbia anche previsto espressamente il divieto di pubblicazione dell’ordinanza di custodia cautelare”. E sì, perché è in quel documento, che un guardasigilli del passato, Andrea Orlando, volle fosse reso pubblico al momento in cui veniva depositato a disposizione delle parti, che si annida la gogna, attraverso intercettazioni, resoconti arbitrari di polizia giudiziaria e arricchimenti morbosi finalizzati all’edicola più che alla giustizia. Quelle pubblicazioni, aveva aggiunto l’avvocato Belcastro, rappresentano “una lesione del diritto alla riservatezza, all’onore e alla presunzione d’innocenza dell’indagato”.

È proprio così, e siamo arrivati ai giorni nostri, avendo ben chiaro il fatto che ogni buona legge deve avere anche una buona applicazione. Quella direttiva europea del 2016 non poteva trovare concreta applicazione se non si fosse superata la possibilità di volantinaggio di atti giudiziari che nei fatti continuava a mostrare l’indagato e l’imputato non solo come colpevoli, ma anche, troppo spesso, come propensi alla commissione dei reati, con descrizioni quasi lombrosiane. Siamo arrivati all’approvazione di una norma di civiltà che sposta alla fine delle indagini preliminari il momento in cui è possibile pubblicare, in tutto o in parte, le ordinanze di custodia cautelare, così completando l’applicazione della direttiva europea sulla presunzione di innocenza. Il termine di “legge bavaglio” è usato da procuratori e giornalisti. E la Fnsi, sceglie l’autocensura: non andate alla conferenza stampa del Capo del governo, dice ai propri iscritti. Imbavagliatevi contro il bavaglio.