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Pietro Cavallotti
Ci siamo. Sapevamo che, sulle misure di prevenzione, si sarebbero presto schierate le prime linee dell’antimafia. Ed eccolo, Gian Carlo Caselli, smontare ogni evidenza giudiziaria e sostenere che i fratelli Cavallotti, innocenti eppure confiscati di ogni bene, meritavano quelle misure, perché avrebbero goduto della “protezione di Cosa nostra”. Caselli sostiene che gli imprenditori palermitani, ora in causa contro lo Stato davanti alla Corte europea, ottennero grandi commesse perché benvoluti dalla mafia. Sono le tesi sviluppate, senza un reale contraddittorio, dai magistrati della sezione “Misure di prevenzione” del Tribunale di Palermo. Diretti dalla dottoressa Silvana Saguto, furono loro a infliggere ai Cavallotti confische definitive nonostante le piene assoluzioni nel processo penale. Peccato si tratti di accuse che sono state smentite nell’unica sede in cui fu possibile svolgere un contraddittorio, il giudizio penale appunto. È emerso che Provenzano si assicurava della “messa a posto”, cioè della regolare esazione del pizzo, dai fratelli Cavallotti. E, nonostante gli abominii pure consentiti dal codice antimafia italiano, pagare il pizzo non è ancora una circostanza qualificabile come collusione mafiosa.
È stato accertato, soprattutto – e sarebbe sorprendente se un giurista della levatura di Caselli avesse firmato l’articolo di giovedì mattina su La Stampa senza aver notato questi riscontri – come uno dei boss chiamati come testi al processo Cavallotti abbia dichiarato che gli imprenditori palermitani erano “oggetto di richieste di denaro da parte della mafia”, ma non “fiduciari” dei boss. Ed è agli atti, più di tutto, la frase pronunciata dal pg di Corte d’appello Florestano Cristodaro, collega di Caselli, al “procedimento di prevenzione”: «Lo
Stato, a queste persone, dovrebbe chiedere scusa».
E io, da cittadino, vorrei chiedere scusa non solo a Pietro Cavallotti, che da anni si impegna in un profondissimo studio del diritto penale per venire a capo delle mostruosità capitate alla sua famiglia. Oltre che a lui, vorrei chiedere scusa ai tanti altri imprenditori che, non solo in Sicilia, sono stati privati delle loro aziende e delle loro stesse abitazioni seppure riconosciuti innocenti nell’unico procedimento giudiziario degno di questo nome, il processo penale appunto. Caselli è una figura importante, e stupisce un’altra cosa, del suo articolo di giovedì: l’appello ai giudici di Strasburgo affinché si fidino non tanto dell’evidenza “cartacea”, cioè degli atti processuali relativi al caso Cavallotti, ma piuttosto di “immagini e filmati che testimonino l’orrenda realtà della storia criminale, violenta e stragista di Cosa nostra”. E no, procuratore, non lo faccia anche lei. Non ci dica che la suggestione mediatica conta più del diritto. La storia della bestialità mafiosa è chiarissima, ma non per questo bisogna lasciar risucchiare, da quella storia infame, qualsiasi vicenda umana, compresa la vita delle persone innocenti. O consegneremo ai boss il primato di essersi imposti ancora una volta, sul diritto, sulla verità e sulla giustizia, con le armi della violenza e della menzogna.