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È stato definitivamente assolto dopo oltre dieci anni di calvario giudiziario Martino Politi, 57 anni, collaboratore storico della famiglia Matacena. Arrestato nel 2014 nell’ambito dell’inchiesta “Breakfast”, con l’accusa di aver aiutato l’ex deputato Amedeo Matacena a fuggire all'estero per evitare il carcere e di aver intestato fittiziamente alcune società per proteggere il patrimonio della famiglia, la Corte d’Appello di Reggio Calabria ha chiuso definitivamente la sua vicenda, riconoscendone l’innocenza. «Ricostruire è difficile - racconta al Dubbio -. Le cicatrici restano e le etichette, anche dopo un’assoluzione piena, sono dure a morire».
Come ha vissuto questo lungo periodo sotto processo e quale impatto ha avuto sulla sua vita professionale e personale?
È stato un periodo estremamente difficile, sia sotto il profilo umano che professionale. Fin dall’inizio ho sempre riposto fiducia nella giustizia, anche se non posso negare che i lunghi tempi mi abbiano profondamente segnato. L’impatto sulla vita quotidiana è enorme. Dal punto di vista professionale, ho dovuto affrontare sospetti e prese di distanza: in particolare, ho subito un licenziamento ingiustificato e inaspettato da parte delle società di cui ero dipendente, senza ricevere alcun compenso arretrato da parte dell’allora amministratore giudiziario, poi coinvolto in altri scandali giudiziari. Sul piano personale, il peso maggiore è ricaduto sulla mia famiglia, che mi è sempre stata vicina, pur soffrendo con me. In modo particolare, ha sofferto mia madre, che mi ha sostenuto con amore ma che, purtroppo, oggi non può condividere con me la gioia per l’assoluzione definitiva, non essendo più in vita. Oggi sento che finalmente è stata ristabilita la verità. Questo mi dà la forza per guardare avanti con maggiore serenità, ma certe ferite non si rimarginano facilmente.
Cosa pensa delle accuse e come si è preparato a difendersi?
Erano infondate e distanti anni luce dalla mia condotta e dai miei valori. L’incredulità e l’amarezza iniziali sono state forti. L’arresto e il trasferimento alla casa circondariale di Arghillà sono stati traumatici. Ho affrontato la difesa con determinazione e consapevolezza della mia innocenza, affidandomi agli avvocati Corrado Politi e Antonino Curatola. Ho collaborato, fornendo documenti e informazioni per dimostrare la mia estraneità. Alla fine, la verità è emersa.
Come ha vissuto il contrasto tra la consapevolezza della sua innocenza e le accuse?
È stato lacerante. Da un lato, la certezza della mia innocenza; dall’altro, il peso di accuse ingiuste. Il processo ha evidenziato l’assenza totale di prove concrete. Il mio interrogatorio e le dichiarazioni rese in aula bunker hanno avuto un ruolo decisivo. La coerenza della mia posizione e la forza dei fatti hanno avuto la meglio.
Come si spiega che alcune situazioni siano state percepite diversamente nella fase iniziale?
Nelle prime fasi investigative, solitamente vi sono elementi che vengono letti in modo decontestualizzato. Alcune dinamiche aziendali e relazioni professionali possono apparire sospette se non analizzate nel giusto contesto. L’avvocato Politi ha dimostrato documentalmente al Tribunale del Riesame la mia totale estraneità. Il mio operato era lecito e trasparente. Solo un pregiudizio ha potuto farlo apparire diversamente. Fortunatamente, il collegio giudicante ha riconosciuto la verità.
La vicenda ha avuto un forte impatto mediatico. Come lo ha gestito?
È stata una sfida enorme. Sin dall’analisi delle informative e dell’ordinanza di custodia, ho notato una costruzione artificiosa dei fatti. Un esempio eclatante fu un pedinamento a Roma: l’incontro in Piazza di Spagna con Matacena venne travisato. L’investigatore romano, chiamato a testimoniare due volte, smentì l’informativa principale. Questo mi ha fatto capire che non basta essere innocente: bisogna dimostrarlo con fermezza. Il clima era avvelenato dalla fuga di Matacena a Dubai. Temevo che la verità non sarebbe emersa in tempo, ma la consapevolezza della mia innocenza e il supporto familiare mi hanno sostenuto. Alcune strutture societarie, specie se complesse o innovative, possono essere mal interpretate da chi osserva solo superficialmente o con un’ottica investigativa negativa. Nel mio caso, la sentenza ha chiarito che non c’era alcuna volontà illecita. Ho sempre rispettato le normative. Tuttavia, ci sono voluti anni per dimostrare ciò che era chiaro a chi conosceva la mia attività. Spesso si guarda con sospetto a ciò che non si comprende. È un problema sistemico. La giustizia ha fatto il suo corso, ma il prezzo personale è stato alto. In aula, abbiamo chiarito ogni passaggio con documenti e testimonianze. Il collegio giudicante ha riconosciuto l’assenza di elementi incriminanti. Capisco che, in indagini ampie, si tenda a voler collegare tutto, ma la verità ha confini precisi.
Come si è sentito quando la Corte ha riconosciuto la sua innocenza?
È stato un momento di sollievo e commozione. Sollievo perché veniva riconosciuta ufficialmente la mia totale estraneità; commozione per tutto ciò che ho perso: serenità, opportunità, la fiducia delle persone. Tuttavia, resta l’amarezza per il tempo perso e il dolore vissuto. È stata una vittoria della giustizia, ma anche la fine di un percorso che non avrei mai voluto intraprendere.
Guardando al futuro, cosa spera dopo questa vicenda?
Ricostruire è difficile, ma necessario. Le cicatrici restano e il reinserimento nel mondo del lavoro è ancora un obiettivo non raggiunto. Le etichette, anche dopo un’assoluzione piena, sono dure a morire. Spero che questa assoluzione non solo mi restituisca il lavoro, ma serva anche a sensibilizzare sulle conseguenze di un’accusa ingiusta. Il mio pensiero va a chi vive situazioni simili senza voce per difendersi. A loro dico: credete nella verità, perché alla fine, la giustizia – quando guidata da coscienza e competenza – arriva.