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Visita dell'ex Ministra Marta Cartabia all\'Istituto penale per i minorenni con partecipazione di Fondazione Francesca Rava
Il decreto Caivano compromette uno dei principi cardine del processo penale minorile: la valutazione individuale della personalità del minore. È questo, in sintesi, il cuore dell’ordinanza con cui il Tribunale per i minorenni di Roma ha sollevato una nuova questione di legittimità costituzionale dell'articolo 28, comma 5- bis, del Dpr 448/ 1988, introdotto proprio dal decreto.
La norma contestata esclude automaticamente l’accesso alla sospensione del processo con messa alla prova per determinati reati considerati gravi — come la violenza sessuale, anche di gruppo, in presenza di specifiche aggravanti — impedendo al giudice qualsiasi valutazione caso per caso. Col paradosso, invece, di consentirla per reati ad elevatissima pericolosità sociale come l’associazione mafiosa. Secondo i giudici romani, questa preclusione contrasta con gli articoli 3, 31 e 117 della Costituzione.
La messa alla prova rappresenta infatti uno strumento centrale nella giustizia minorile, volto a favorire il recupero del minore e la sua reintegrazione sociale, attraverso percorsi educativi e riparativi. Privare il giudice della possibilità di valutare la situazione concreta del singolo minore, in nome del solo titolo di reato, vanifica la funzione rieducativa che la Costituzione assegna alla pena — e ancor più chiaramente nel processo minorile.
Nel caso specifico, il minore è accusato di aver baciato e palpeggiato una coetanea senza consenso. Tuttavia, il Tribunale sottolinea come non si tratti di una condotta riconducibile a una “personalità delinquenziale strutturata”, bensì di un episodio isolato, compiuto da un ragazzo incensurato, regolarmente inserito nel contesto scolastico, parrocchiale e sportivo, e disposto a intraprendere un percorso educativo, anche con il supporto dei servizi specialistici. Il giovane ha inoltre manifestato un immediato pentimento, scusandosi con la vittima prima ancora della denuncia, e dimostrando un’autentica consapevolezza del disvalore del suo comportamento. La vittima stessa ha confermato la sincerità delle scuse.
Il reato, pur non ritenuto irrilevante ai sensi dell’articolo 27 del DPR 448/ 88, né suscettibile di perdono giudiziale (che «rappresenterebbe una definizione del processo deteriore», dal momento che la sentenza sarebbe annotata sul certificato penale del minore fino al compimento dei 21 anni, con danno per la sua immagine e reputazione), richiederebbe — secondo il Tribunale — un’analisi approfondita della personalità del minore, dei contesti di appartenenza, e della sua capacità di recupero.
Una possibilità che il comma 5- bis vieta a priori. Ciò in contrasto con la sentenza n. 139/ 2020 della Corte costituzionale, secondo la quale l’istituto della messa alla prova «è previsto per tutti i reati anche quelli di gravità massima», ma l’ammissione alla misura dipende dalla valutazione discrezionale del giudice, che deve sempre considerare «la personalità del minore». E sempre la Consulta, con la sentenza n. 23/ 2025, ha ribadito che l’obiettivo primario della messa alla prova è «favorire l’uscita del minore dal circuito penale», stimolando una riflessione critica sulla propria condotta, con la speranza che il minore comprenda la gravità della sua azione e possa reintegrarsi nella società in modo positivo.
L’automatica esclusione basata sul solo titolo del reato, secondo il Tribunale di Roma, finisce per negare il principio di uguaglianza sostanziale (articolo 3 della Costituzione), impedendo una risposta educativa uniforme e proporzionata alla situazione concreta del minore. E in modo paradossale, osservano i giudici, reati associativi come l’appartenenza a un’organizzazione mafiosa restano ammissibili alla messa alla prova, mentre ne viene escluso il ragazzo protagonista di questo procedimento, riesumando «larvatamente la funzione retributiva della giustizia penale soltanto per alcuni reati».
Un punto critico messo in luce anche dal presidente del Tribunale dei minori di Trento, Giuseppe Spadaro. «Mi sembra vi sia una evidente irrazionale scelta legislativa nel considerare alcuni reati di tale rilevanza criminosa da non poter consentire l’ammissibilità di un percorso di messa alla prova - ha commentato al Dubbio -. Ad esempio perché allora non considerare di estrema rilevanza criminosa l’appartenenza ad associazioni di stampo mafioso?».
Per i giudici, il ricorso allo strumento penale retributivo «non appare come la soluzione al problema della commissione di reati gravi, ma piuttosto come la prova di un insuccesso delle strutture sociali» e di una «pericolosa rassegnazione all’intervento meramente punitivo, quasi sempre inutile, se non dannoso nel percorso evolutivo di un soggetto». L'eventuale «e tutto da dimostrare aumento quantitativo di imputazioni per i reati ostativi alla messa alla prova individuati dal Legislatore - continua la sentenza - renderebbe ancor di più necessaria una analisi approfondita ed individualizzata della personalità del minore imputato» e del contesto di provenienza per comprendere le ragioni del gesto e poter infine «giungere, nel merito, ad ammettere od escludere la messa alla prova, caso per caso e in relazione non soltanto al titolo di reato», che diventerebbe altrimenti «l’unico dato certo sul minore».
La norma si pone inoltre in violazione dell’articolo 117 della Costituzione, nella parte in cui impone il rispetto delle carte e delle direttive orientate a privilegiare soluzioni educative e alternative alla detenzione per i minori, anche nei casi di reati gravi. Infine, osserva il Tribunale, tale esclusione automatica introduce un’idea di «non rieducabilità presunta», in aperto contrasto con la funzione rieducativa della pena sancita dall’articolo 27, comma 3, della Costituzione, oltre che con l’articolo 31, che impone allo Stato di tutelare l’infanzia e promuoverne lo sviluppo. Insomma, il comma 5- bis rischia di tradursi in un ostacolo grave al recupero dei minori autori di reati, da qui la richiesta ai giudici costituzionali di intervenire per ristabilire un equilibrio coerente con i principi costituzionali e sovranazionali che regolano la giustizia minorile.